“Resterà per sempre il simbolo di un processo nato malato dove l’imponenza dello Stato sembra essersi goffamente nascosta dietro figure assai esili”. Sta tutta qui, o quasi, la storia di anni e anni di abbagli che hanno tenuto sotto scacco lo Stato, l’Italia, la verità. Sta appunto nelle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, picciotto della Guadagna, un pentito anomalo, che ha fatto e disfatto l’impianto accusatorio del processo Borsellino in cui come nel gioco delle parti si è ritrovato ad essere prima artefice di quel piano criminale e poi depistatore bugiardo, tessitore e megafono di verità confezionate ad hoc. Scarantino oggi è anche uno dei protagonisti del saggio scritto dall’avvocato Rosalba De Gregorio e dalla giornalista Dina Lauricella, Dalla parte sbagliata, edito da Castelvecchi. Un testo che vuole comunicare all’Italia intera i paradossi di un periodo in cui ha imperato la confusione, il disorientamento e l’incapacità di agire lucidamente e che pone l’interrogativo che rimane sempre lo stesso:Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato terzo livello? Di sicuro si legge nel libro che chi “ha legato mafia e pezzi delle istituzioni attraverso il ‘papello’ ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per ventidue anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il paese nell’immediato dopo strage”. Ma nel saggio la De Gregorio denuncia, ancora una volta, lo sgretolamento delle garanzie costituzionali, del garantismo.
Nel saggio scritto a quattro mani con la giornalista Dina Lauricella non mancano riferimenti allo sgretolamento delle garanzie costituzionali, del garantismo. Quanto è forte questa mancanza nel nostro paese?
Dal ’92 a oggi ne sono sospese tante perché già il 41 bis per come viene attuato realizzato e messo in opera è già una violazione di tutta una serie di norme: dalla corrispondenza, al diritto al colloquio, alla funzione rieducativa della pena. L’applicazione del carcere duro rappresenta già con questa serie di sfaccettature delle mancanze di costituzionalità gravissime che nella situazione dell’Asinara hanno toccato punte criticissime. Ma anche oggi, in alcune carceri, i diritti del detenuto se ne sono andati attraverso quelle che sono le norme che regolano il processo penale, e ancora con la giurisprudenza che si è formata attraverso la figura del collaboratore di giustizia che ci mette nelle condizioni di avere una difesa impossibile e quindi anche il diritto di difesa soffre parecchio.
Il processo Borsellino ha avuto più atti. Quanto è lontana secondo lei la verità? E quali sono state le colpe più grandi?
Per il processo Borsellino ne abbiamo avuti tre e adesso c’è in atto il quarto e c’è in corso un’indagine. Dal punto di vista della verità siamo quasi a zero, nel senso che abbiamo scoperto una parte con Spatuzza di esecuzione che riguarda Cosa Nostra. Ma una parte. Non abbiamo chiara l’eventuale parte alla fase esecutiva e ricordo che Spatuzza parla di un soggetto esterno a Cosa Nostra che era nel garage quando va a portare la macchina rubata e questo tizio per lui non è un uomo interno alla “famiglia” di Cosa Nostra ma un soggetto che non sa identificare anche perché lo ha visto poco. Non parliamo poi di quella “partecipazione esterna” perché lì andiamo in alto mare nel momento in cui si viene a stratificare un’altra verità e attribuendo una parte dell’esecuzione a soggetti che non centravano niente e che non portavano a niente e nessuno. E’ chiaro che si è allontanata di vent’anni la ricerca della verità quindi noi ancora non sappiamo dove è stato preso tutto l’esplosivo, non sappiamo chi fisicamente ha schiacciato il telecomando. La ricostruzione di Spatuzza si ferma al momento in cui consegna la macchina perché poi dice che Graviano gli ha detto: “Sparisci da Palermo per un po’ e quindi di come si sia svolta la mattinata, il pomeriggio, il momento proprio dell’esplosione, chi fisicamente porta l’esplosivo tutto questo Spatuzza non lo sa e non lo dice nessuno.
Il libro rifiuta la categorizzazione dicotomica del mondo in buoni e cattivi. Secondo lei dal post stragi l’Italia non è intrisa di queste dicotomie, che spesso fanno sparare giudizi su fatti, personaggi, senza conoscere gli atti processuali?
Sì. E’ come se si sia sentita la necessita di eliminare, attraverso un giudizio a monte, l’attendibilità dei difensori veicolando l’immagine che questi siano fiancheggiatori di Cosa Nostra, al fine di non avere attacchi alle tesi accusatorie che si portavano avanti. Questa etichetta appioppata all’avvocato del diavolo ha coinvolto altre sfere della società. Il gioco era o sei con me o contro di me.
Quanto le è pesata la figura dell’avvocato del diavolo nella sua carriera?
Il messaggio che si è voluto mandare è che l’avvocato che difende i mafiosi è inattendibile e se difende mafiosi del calibro di Provenzano lo è di più. Lo screditamento cresce con la nomina da parte di soggetti più rilevanti, noti nell’organigramma di Cosa Nostra. In questo senso pesa perché ti viene detto: “tu non fai parte della società civile”. Ma chi lo ha detto? Mi dicono che non ho sentimenti che non posso commemorare le persone che sono morte. Falcone e Borsellino erano i miei interlocutori. Ho trentadue anni di professione e con loro ci lavoravo. Erano gli interlocutori veri, validi. Quelli con cui faceva anche piacere confrontarsi. Claudia Benassai