C’è un fotografo curdo siriano, che in questi giorni sta facendo delle foto pazzesche. Ha 33 anni, si chiama Delil Souleiman, lavora per l’Agenzia France-Presse (AFP). Una decina di giorni fa ha raccontato la fuga dei curdi di fronte all’invasione turca con la foto simbolo di una famiglia di cinque persone che scappa in moto.
Volevo conoscere la sua storia e la storia di quello scatto. Allora ho cercato un contatto e gli ho scritto. Ieri mattina mi ha spiegato che voleva rispondermi ma si era trovato di fronte un convoglio americano di pattuglia lungo il confine, in una zona da cui su ordine di Trump i militari si erano ritirati tre settimane fa.
Stanotte Delil ha mantenuto la promessa e nonostante la
guerra mi ha mandato una lunga mail: “Questa foto l’ho scattata il 16 ottobre,
è una famiglia curda che scappa dai bombardamenti turchi. Si capisce che per la
paura hanno abbandonato la loro casa in tutta fretta e senza portare via nulla.
Non so nient’altro di loro, non conosco i nomi dei genitori e nemmeno quelli
dei bambini, perché è solo una delle centinaia di famiglie che ho visto
fuggire”.
Sullo sfondo le colonne di fumo create dagli pneumatici
incendiati per ridurre la visibilità agli aerei e ai bombardieri turchi: “Quei
momenti erano carichi di terrore, orrore e di sirene di ambulanze che andavano
a recuperare morti e feriti. Ognuno stava solo cercando di salvare la vita dei
propri figli”.
Una foto incredibile: in mezzo a quell’apocalisse i bambini
più piccoli sembrano quasi ignari, il più grande ha uno sguardo sereno ma
cosciente e il padre è fiero di portare in salvo la sua famiglia. Sono convinto
che questa foto resterà e ha tutto per vincere il World Press Photo come
immagine dell’anno.
Il suo autore Delil Souleiman non aveva la vocazione del
fotografo di guerra, ma tutt’altro: “Mi sono laureato in letteratura francese a
Damasco e avevo deciso di lavorare con la fotografia perché mi attiravano gli
aspetti filosofici e di bellezza che contiene. Ma la guerra mi ha costretto a
testimoniare orrore, morte, migrazioni e distruzione. Così per me la fotografia
ha perso il significato che aveva e ora rappresenta la profondità che ho
scoperto come essere umano e non ne posso più fare a meno”.
Da cinque anni è in prima linea, a Kobane come a Raqqa, ma lo scorso anno ha avuto un figlio e si era convinto che stessero per arrivare tempi migliori. “lo abbiamo chiamato Avan che significa “prospero”, “rigoglioso”. Avevo la speranza che questo nome indicasse il suo cammino, la sua aspettativa di vita. Dopo la vittoria dei curdi sull’Isis sembrava una prospettiva finalmente possibile”.
Ma all’improvviso tutto è precipitato e Delil amaramente aggiunge: “Come abbiamo potuto illuderci, come si può coltivare la speranza di fronte alla devastazione e alla distruzione del mio Paese?Dopo aver sconfitto lo Stato Islamico insieme agli americani abbiamo osato sognare la pace. E io ho pensato anche che ci fosse un po’ di giustizia in questo mondo. Mi sbagliavo, non c’è più giustizia, tutto è assurdo e senza senso. E non avrei mai pensato che il mondo potesse voltare la testa dall’altra parte”.
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