Piano sequenza: Parigi, giorni nostri, un viale alberato in una giornata uggiosa, una carrellata, poi un dolly a superare la fila d’alberi che funge da spartitraffico e infine lo sfondamento, l’irruzione: lo sguardo entra dalla porta principale.
Fine del piano sequenza: l’occhio si palesa e l’oggettiva lascia posto ad un controcampo che ci palesa che quell’occhio, in realtà, è di qualcuno, di un personaggio: l’oggettiva era una soggettiva. Ma quello stesso occhio, che per pochi attimi è stato anche nostro, si è dimostrato essere oltreumano, capace di simmetrie e salti che solo le divinità possono compiere.
Ora è chiaro, è l’occhio di Venere che finalmente si manifesta, e la sua epifania fa di nome Vanda.
Se Polanski ha alle spalle la pièce di David Ives, e ancor prima il romanzo di Von Sacher- Masoch, non ha molta importanza, quello che conta veramente è che Venere in pelliccia è un’opera personalissima e allo stesso tempo universale, un film-mondo dove il personale e l’impersonale si mischiano, si coniugano per dar vita a qualcosa che travalica il qui e l’ora.
Film dei complementari – delle dipendenze, degli opposti conciliabili, dell’uomo e della donna, dell’arte e del reale, del dentro e del fuori – l’ultimo capolavoro di Polanski riassume in sé tutta una poetica e un intero modo di concepire e di fare cinema.
Sembra un testamento, o forse, e meglio, solo un inno, alla donna, all’amore, al cinema.
È ovvio che, come ogni altra opera artistica, anche questa risenta degli aspetti autobiografici del suo autore e, del resto, sembra abbastanza chiaro che l’aver scelto come protagonisti la propria moglie, Emmanuelle Seigner (che nel film recita la parte di un attrice), e un attore che gli somiglia tanto, Mathieu Amalric (che nel film recita la parte di un regista), indichi il bisogno di Polanski di riflettere su se stesso, su ciò che è stato e che è come uomo e artista.
Tuttavia, da un’altra prospettiva, è lecito pensare che questo aspetto autoreferenziale serva in realtà a mettere alla prova le logiche matrimoniali tradizionali, ovvero quel rapporto moglie-marito che vede l’una succube dell’altro[1]. Polanski infatti, dando alla donna il coltello dalla parte del manico, capovolge questo status consolidato, non solo nel rapporto tra il proprio alter ego e la propria moglie, ma anche rispetto ai due personaggi. Se infatti Thomas, nel rispondere al cellulare alla propria compagna sente di dover mentire cercando scuse per il mancato ritorno a casa, dimostra una netta inferiorità rispetto alla sua donna che, a quanto pare, non riesce ad affrontare a viso aperto, al contrario Vanda, nella stessa situazione, si mostra nettamente superiore, provando di non dover dare spiegazioni al suo sedicente compagno e ponendosi dunque in una posizione di superiorità e di dominio rispetto a lui.
Ma, come nella letteratura di Masoch[2]. il piano personale, autobiografico e autoreferenziale (che, come abbiamo appena visto, in Polanski si fa anche sociale), non può non elevarsi ad un livello superiore, trascendentale o archetipico che sia.
Il Reale si frantuma per condensarsi in Idea, in concetto astratto, attraverso un movimento ascensionale opposto e uguale a quello che compie la protagonista che, prosopopea di Venere[3], scende dall’Olimpo per educare l’uomo.
Ecco allora un secondo livello, che potremmo definire mitico.
Nel caso di Vanda infatti l’anabasi si capovolge: l’I-dea si abbassa al piano mondano e si fa carne: inizialmente Vanda (ci) appare come una prorompente vamp un po’ svampita e sguaiata, un’attricetta da quattro soldi di un’ingenuità allarmante, ma basta che l’uomo le dia una possibilità (o mal che vada è lei a prendersela) ed ella potrà mostrarsi in tutta la sua possente grandezza: la connotazione divina di Vanda, ma bisognerebbe dire della Donna tout court, al di là del gioco d’inquadrature iniziale, è dimostrata dalle capacità sovraumane che ella dimostra, come sapere a memoria l’intero copione della pièce, oppure “indovinare” i caratteri fisici, psichici e biografici della compagna del protagonista; inoltre l’essere superiore può prendersi gioco dell’uomo (e dello spettatore) mentendo, inventando altre identità, altri personaggi, altri ruoli (“Sono una detective”, insinuerà la protagonista).
Quando Vanda/Venere entra in teatro, scopriamo che le audizioni sono finite e che il regista ha scacciato tutte le aspiranti attrici, dimostrando di non aver capito il senso ultimo dell’opera di Masoch, ovvero che
Ma ad ogni peccato corrisponde una pena: se Giovanni Battista rifiutò Giuditta e venne decapitato[6], se Orfeo, protetto di Apollo e portatore d’armonia, si oppose agli inviti delle baccanti e venne smembrato, e se Penteo, il re di Tebe che rifiutò il culto dionisiaco, avrà la testa mozzata e impalata, Thomas verrà immolato su un cactus – retaggio di un musical tratto da Ombre Rosse (e non è un caso: il western è un genere tipicamente maschile).
La metafora è lampante e ci avverte che l’uomo non può opporsi al suo destino di schiavitù dalla donna: egli è legato, incatenato al proprio fallo, alla propria pulsione erotica, al desiderio di possedere ciò che lo possiede.
Allora Vanda è anche maga, è Circe che trasforma gli uomini in porci mostrandogli il loro vero volto, vendicandosi così di millenni di repressione e sottomissione, vendicando le sue sorelle, le menadi, le streghe, le mogli di una società maschilista incapace di riconoscere il fuoco divino che infiamma i seni delle sue donne.
Scambi dunque, sovrapposizioni, giochi di specchi, sia all’interno del film in questione che in rapporto ad altri film del regista: l’Uomo si fa Donna (e ritorna alla mente L’inquilino del terzo piano), il padrone si fa servo (o se si preferisce il carnefice si fa vittima: Luna di fiele, La morte e la fanciulla), l’Uomo si fa Dio (o antiDio, a seconda dei punti di vista: Rosemary baby, La nona porta – dove proprio
Quello di Vanda è il potere della messa in scena, dove gli oggetti più comuni cambiano di senso (la sciarpa di lana diviene stola di visone, il fuoco da campo diventa il camino di un hotel di lusso), dove i ruoli cambiano di sesso e non hanno definizione, dove gli spazi sono spazi altri (la scenografia è mentale).
Ma questo potere è un contropotere, si oppone cioè all’ordine prestabilito, lo sconvolge e lo capovolge, ma senza annichilirlo: Dioniso si siede accanto ad Apollo e il caos s’infonde nell’armonia[7].
Appare chiaro dunque che l’intento di Polanski è quello di restituire il senso di un rapporto tra Uomo e Donna e tra regista e attore alla luce di un conciliazione delle parti, e l’unico modo per riuscirci è quello di riconoscere alla Donna-attrice un ruolo predominante all’interno della messa in scena, che è allo stesso tempo propria (del regista) e universale (dell’Uomo): come l’Uomo è legato al desiderio atavico e innato per
[1] Del resto, quello dei rapporti di coppia non è un tema nuovo per il regista, basti pensare a Rosemary’s baby, Frantic, Luna di fiele o al più recente Carnage.
[2] cfr. Deleuze Gilles, Il freddo e il crudele.
[3] Sia nel romanzo che nel film è presente, enunciata nel primo caso, mostrata nel secondo, La venere allo specchio di Tiziano. Inoltre all’interno del libro si fa riferimento alla presenza di una statua della dea, mentre i titoli di coda del film scorrono su diverse raffigurazioni pittoriche della divinità (Botticelli, Bronzino, etc…).
[4] L’espressione “eterno femminino” è di Goethe e la si trova nel Faust, opera che Severin, il protagonista del romanzo di Masoch, legge nel momento in cui Vanda gli fa visita per la prima volta.
[5] cfr. Otto Rudolf, Il sacro.
[6] All’inizio del romanzo e alla fine del film è presente questa citazione: “ ’Dio lo ha punito e lo ha dato/in mano a una donna’. Giuditta, XVI,
[7] Non è un caso che tutta l’azione si svolga, oltretutto secondo i dettami aristotelici, all’interno e intorno al teatro (inteso sia come luogo che come arte) di cui le due divinità greche sono i numi tutelari. cfr. Nietzsche Friedrich, La nascita della tragedia dallo spirito della musica.