Della Ndrangheta e dei suoi professionisti

Concludiamo con quest’ultimo artico la lunga intervista che il Procuratore della Dia di Reggio Calabria, Roberto di Palma ci ha voluto regalare e lo facciamo riportando l’esempio di un collaboratore di giustizia che con le sue dichiarazione ci fa intravedere come può essere complicata l’attività investigativa dei Magistrati.

 

Ricordo le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, intorno agli anni ’90: egli affermò la propria responsabilità in merito ad alcuni fatti di reato – anche gravi – che erano avvenuti in città. Poiché gli stessi si erano rivolti anche contro soggetti ritenuti investigativamente come “vicini” ad ambienti di criminalità organizzata, si temette di essere di fronte all’innescarsi di una nuova guerra di mafia”.

In realtà, il collaboratore dichiarò di esserne stato l’autore al solo scopo di dimostrare ai boss che era – per usare la sua stessa terminologia –  un’”azionista”, un uomo d’azione, una persona capace di compiere un certo tipo reati e, dunque, degno di  entrare nel clan delle famiglie mafiose, avendone tutti i requisiti.

 

Cosa pensa dell’ultima dichiarazione del Procuratore Nicola Gratteri in merito alla DIA, i cui compiti darebbero ripetitivi rispetta alle altre forze dall’ordine?

 

Penso, senza voler entrare nel merito – spettando eventualmente al dottore Gratteri rispondere direttamente al suo quesito – che la frase può essere lo spunto per precisare che alcune volte vi sono delle sovrapposizioni di funzioni investigative o di ruoli.

La grande professionalità dimostrata dai corpi investigativi necessita di un altrettanto adeguato coordinamento investigativo per evitare sovrapposizioni ed inutile dispendio di forze.

Di norma, nel dare inizio a importanti attività investigative in cui necessita la partecipazione di due o più forze investigative, vengono convocati i rappresentanti di quegli organismi al fine di un proficuo coordinamento.

Diversamente possono esserci settori particolarmente esplorati ed atri che possono sfuggire all’analisi degli investigatori.

  

Vi è oggi la proposta di delocalizzare la gestione dei beni confiscati alla mafia, non può questo creare una commistione di “interessi” illeciti?

 

È ovvio che quando si devono usare strumenti nuovi – come quello della legislazione inerente la gestione dei beni confiscati alla mafia – necessita un periodo di rodaggio: penso, tuttavia, che sia comunque una cosa positiva aver legiferato sul punto.

Sottolineo, tuttavia, che i veri problemi che interessano la gestione dei beni della mafia sono diversi e sono quelli connessi con la quotidianità, quelli che nascondo della gestione quotidiana dei beni confiscati.

Intanto, premettiamo che lo Stato italiano risulta essere debitore di una somma estremamente considerevole nei confronti degli istituti di credito, questo significa che mentre un imprenditore privato ha delle linee di credito nei confronti delle banche,  appena interviene lo Stato con provvedimenti di sequestro di custodia dei beni e quindi si realizza l’amministrazione del bene attraverso lo Stato, le banche immediatamente e proprio in virtù del fatto che già sono creditrici non soddisfatte, tendono inesorabilmente a chiudere tutte le linee di credito.

Quindi l’amministratore giudiziario, il custode, l’amministratore dei bene confiscati che amministra i beni sequestrati a soggetti appartenenti ad associazioni per delinquere di stampo mafioso a cui – come soggetti privati – le banche riconoscevano linee di credito, si vede negare il credito dai medesimi Istituti perché – paradossalmente – rappresentano lo Stato.

Questo significa che nel momento stesso in cui lo Stato entra nella gestione di un bene, di una Società o di una Ditta, questa è destinata – in linea generale e fatte salve le debite eccezioni – ad andare in decozione.

Un secondo aspetto nasce dall’esperienza fatta attraverso le indagini: talvolta, agli imprenditori vengono permesse prassi al limite della legge o dichiaratamente contra legem.

Ad esempio si sono riscontrati casi in cui taluni Istituti di Credito effettuavano lo sconto su fatture da emettere, ossia su crediti futuri e non ancora esigibili: un esempio di “economia creativa”, se vogliamo usare un termine simpatico; in realtà, si tratta di pratiche illegali.

Diversamente, quando la gestione della società passa ad un amministratore giudiziale, una cosa del genere non la permette e non la può fare.

Pertanto, diventa chiaro che il valore della Società ed il suo bilancio si ridimensionano significativamente.

Se questi sono alcuni dei problemi che si possono avere nella gestione dei beni confiscati, ciò non toglie che una delocalizzazione territoriale degli uffici che stanno a Roma può essere positiva, soprattutto se questi soggetti pubblici vengono sul territorio e con la loro stessa presenza, con il loro intervento, con le loro conoscenze personali, con i loro mezzi riescono ad avere una gestione migliore delle imprese, ovviamente purché tutto questo rimanga un istituto pubblico.

In definitiva se queste strutture centrali creano degli strutture satellite in loco, per esempio a Palermo, Catanzaro, Catania, personalmente ritengo possa essere una buona iniziativa.

 

Cosa mi può dire dei recenti arresti che hanno interessato i cosiddetti professionisti dell’antimafia? La Girasole, Rosy Canale

 

Anche in questo caso preferisco non entrare nelle vicende specifiche in quanto sub iudice.

D’altro canto sono fermamente convinto che l’informazione è cosa diversa dalla “spettacolarizzazione” e, nel settore giustizia, il tutto assume una portata ancor più significativa.

Anche perché questa è una conquista di civiltà.

Avere un’informazione seria, serena e molto attenta al rispetto della persona e dei suoi diritti penso sia un obbiettivo cui tutti dobbiamo tendere.

In altri termini voglio dire che vi sono dei processi in corso e che non possiamo entrare nel merito del come, del quando e del perché: ovvio rimane che se vi sono delle responsabilità civili e penali o amministrative saranno le fasi processuali a doverlo determinare oppure se si tratta di responsabilità solo morali o deontologiche queste ci restituiranno l’immagine di una persona diversa magari – paradossalmente – anche migliore di quella che avevamo.

Pertanto, in generale, dico che è un problema di controlli. Poniamoci la famosa domanda: chi controlla il controllore?

Infatti, i soggetti di cui parliamo erano posti in situazione apicale nell’ambito delle strutture che gestivano.

Ed allora, se hanno potuto (ammesso che l’abbiano fatto) debordare i limiti di legge e tradire il mandato affidatogli non solo è un problema di responsabilità personale (penale, civile, amministrativa o solo morale) ma anche – forse – un problema di assenza di dovuti controlli tali da prevenire le situazioni createsi.

 

Ma rimanendo in tema questi professionisti dell’antimafia che utilità hanno oggi?

 

La domanda è interessantissima ma per dare una risposta dovremmo vedere com’era la Calabria sino a pochi anni fa, dove non esisteva (salvo rare eccezioni) alcuna forma di associazionismo antimafia e chi viveva tale realtà – per una scelta civica o per lavoro – viveva una vita veramente isolata.

Anzi, alcune decisioni o atteggiamenti venivano guardati con sospetto e in maniera molto severa dal resto della popolazione.

Allora, se l’associazionismo serve per – o rappresenta – il risveglio delle coscienze civili, logicamente non può che essere il benvenuto.

Tuttavia, anche qui bisogna stare molto attenti, perché il proliferare in maniera indiscriminata, incontrollata di associazioni può anche significare passare da un eccesso all’altro.

Una volta il professionista dell’antimafia, dando a questo termine un significato positivo, combatteva contro tutto e contro tutti, faceva delle scelte di vita assumendosene pesi, e oneri…

Quando poi l’antimafia diventa moda, si può realizzare il caso in cui si diventa professionisti, in maniera negativa.

Ritornando agli esempi di cui sopra – e sempre ammesso che i fatti contestati siano poi definitivamente provati dal e nel processo – l’aver gestito soldi che venivano dalla società civile, può aver creato la tentazione di destinarli a fini non istituzionali.

Quindi c’è il pericolo che volersi schierare nell’ ‘Antimafia’ non sia per una scelta che sottintende scelte morali e di civiltà giuridica, ma solo il bieco interesse al carrierismo o peggio all’illecito arricchimento

 Fino a quando il nostro Stato continuerà ad avere dei punti deboli che non vengono risanati quali l’accesso al lavoro dei giovani, la disoccupazione, la sanità pubblica, la scuola, le forze dell’ordine, sarà giocoforza che qualcuno cercherà di garantire questi servizi al posto dello Stato e di dare queste risposte che lo Stato non riesce a dare.

E’ in questo modo che la politica perde.

Non è problema di repressione: si possono avere carrarmati, esercito, tantissimi magistrati e tantissimi assistenti giudiziari ma in questo modo lo Stato tenderà solo a mostrare i muscoli.

Il vero nodo è di carattere culturale: da un canto, bisogna immaginare uno Stato che deve dare risposte concrete ai cittadini a dall’altro cittadini che si sentono tali e non sudditi di uno Stato oppressore.

Se lo Stato continuerà ad essere visto come un nemico, per di più incapace di attendere alle funzioni delegategli, laddove la criminalità organizzata riesce – anche in minima parte – ad offrire risposte concrete alle istanze del cittadino, ebbene – sino a quando questo si verificherà – noi avremo perso.

È chiaro, quindi, che queste partite vanno giocate su diversi piani che non sono solo quelli della repressione.

Reprimere sottintende che ci si trovi già nella fase c.d. patologica e cioè quando il reato, anche nella sua forma solo tentata, si è già realizzato.

Dovremmo evitare, per quanto possibile, che ciò accada.

 

Dino Sturiale.