Di Matteo da fastidio allo stato

Di Roberto Palumbo

“Questo matrimonio non s’ha da fare”. C’è un Don Rodrigo anche nella paradossale storia del (non) trasferimento di Nino Di Matteo alla Direzione Nazionale Antimafia e questo Don Rodrigo è lo Stato, che appena può sguinzaglia i suoi bravi per impedire al pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, il magistrato che più di ogni altro Cosa nostra vorrebbe morto, di ricoprire subito il nuovo incarico a Roma. Solo così si spiega la decisione con cui il Ministero della Giustizia ha disposto per Di Matteo l’applicazione alla procura di Palermo per altri sei mesi a partire dal prossimo 15 maggio, quindi fino a metà novembre, nonostante il 15 marzo Di Matteo sia stato indicato all’unanimità dal plenum del Csm per uno dei cinque posti da sostituto messi a concorso alla Superprocura guidata da Franco Roberti e nonostante gli altissimi rischi di attentato cui è esposto ogni giorno in Sicilia. Si dirà che era stato lo stesso Di Matteo a chiedere di essere applicato al processo trattativa e a qualche indagine collegata, ritenendo “doveroso tentare di concludere il mio sforzo”, e spiegando che “la mia non è una fuga ma una scelta per potere continuare a occuparmi di mafia”. Vero, ma è vero pure che il “posticipato possesso” del nuovo incarico è tutt’altra cosa e giustamente Di Matteo lo ha sottolineato: “Sono convinto che ci fossero gli strumenti idonei a coniugare il mio diritto a essere trasferito nella nuova sede con le esigenze di assicurare la continuità del mio lavoro nel processo ma non sono stati adottati, si è preferito trattenermi ancora nelle funzioni di sostituto procuratore a Palermo”. E ancora: “Questa procedura, diversa da quella della applicazione che avevo auspicato e che mi poteva consentire di portare a termine il processo sulla trattativa Stato-mafia, mi impedisce di fatto, per un consistente lasso di tempo, di prendere possesso delle mie nuove funzioni”.

E’ chiaro che Di Matteo è considerato un pm che dà fastidio, per aver iniziato e portato avanti con Antonio Ingroia l’indagine sulla trattativa, nervo scoperto di uno Stato che non vuole si accerti tutta la verità sulla stagione terribile delle stragi e sul patto scellerato che pezzi delle Istituzioni ai più alti livelli strinsero con i boss di Cosa nostra per salvare se stessi. E’ un fatto che chi si è occupato della trattativa è stato isolato, delegittimato, attaccato, come se cercare quella vera verità fosse una colpa e non un dovere. Ingroia è stato “liquidato” subito, con l’accusa di aver fatto politica, mandato ad Aosta perché non rompesse più le scatole, costretto di fatto a dimettersi dalla magistratura quando avrebbe potuto mettere la sua lunga e comprovata esperienza antimafia a disposizione proprio della Dna. La sua domanda fu respinta dal Csm, con una decisione a dir poco discutibile. Dopo è toccato a Di Matteo, oltre 20 anni di processi di mafia alla spalle tra Caltanissetta e Palermo eppure bocciato due volte, con evidenti pregiudizi e con motivazioni risibili, nella corsa alla Direzione Nazionale Antimafia: la prima gli furono preferiti magistrati con minore anzianità e minore esperienza di mafia, ma più esperti nella conoscenza dell’inglese e nell’uso di Skype; la seconda gli fu contestato un mero vizio di forma, dal momento che alla sua domanda non aveva allegato “l’attestazione dell’avvenuta richiesta del parere attitudinale” ed aveva presentato “l’autorelazione senza avvalersi del modulo prescritto nel Testo unico sulla dirigenza”. Così funziona in Italia…

A tutto questo si aggiunge l’ulteriore paradosso della questione sicurezza, che sarebbe alla base del posticipato possesso dell’incarico alla Dna deciso ieri. Già, perché sei mesi fa il Csm aveva sollecitato il trasferimento d’urgenza di Di Matteo a Roma, al di fuori di ogni concorso, considerato l’elevato rischio di un attentato in Sicilia (trasferimento rifiutato dal diretto interessato: “Alla direzione nazionale antimafia eventualmente andrò solo e quando supererò una procedura concorsuale”) ma ora lo stesso Di Matteo viene lasciato a Palermo per altri sei mesi proprio per questioni di sicurezza, perché i continui spostamenti