«Mi parlò anche col sorriso complice dei reduci
di quei tempi di “impegno
politico”, all’università
di come il lavoro, quel “suo” lavoro
avesse rimescolato
amicizie e valori come succede
talvolta nelle zone di frontiera,
negli avamposti abbandonati
dal mondo, dove un
manipolo di coraggiosi continua
a combattere “con la scimitarra” anche se gli altri al quartier generale
hanno da
tempo alzato bandiera bianca»
V. Vasile
Sono trascorsi vent’anni. Quel diciannove luglio, a distanza di 57 giorni dalla strage di Capaci, un’ondata di fiamme in via D’Amelio ha dilaniato la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Scherzavano sulla morte Giovanni e Paolo. L’ombra della morte era diventata una seconda pelle tra consapevolezza e fatalismi, come è riportato da Marcelle Padovani, giornalista francese, all’indomani della morte di Falcone sulle pagine de “l’Unità”: Mi viene a trovare a casa il collega Paolo Borsellino. “Giovanni” mi dice, “devi darmi immediatamente la combinazione della cassaforte dell’ufficio”, “E perché?” “Sennò quando ti ammazzano come l’apriamo?”. Battute di vita vissuta, che riportano le lancette dell’orologio agli anni ruggenti della lotta alla mafia. Immagini che pian piano ingialliscono, tra colori amari e nostalgici. Eroi romantici, ma soprattutto uomini, carichi di tensione morale e amore verso lo Stato. L’idea è quella di ricordare Borsellino. Le manifestazioni hanno riempito le piazze. Le alte cariche dello Stato hanno squarciato quel velo di silenzio che accompagna da sempre le vicende di mafia. Per questo, si è cercata una maniera alternativa per onorare la memoria del giudice, ripercorrendo e offrendo punti di vista diversi. Persone che hanno incontrato Borsellino. Chi per un’intervista, come Vincenzo Vasile, firma storica de “l’Unità”. Chi in un processo di “affrancamento”, come Vincenzo Calcara: il mafioso indicato dai vertici della mafia per uccidere Borsellino e poi, appunto, redento dall’incontro con lui stesso. E infine Oreste Iacopino, animatore del movimento delle Agende Rosse. Un percorso, insomma, frammentato, che, seppur timidamente, intende restituire un’immagine differente, tra la rievocazione di testimoni diretti e di persone che cercano di muoversi nell’ideale chiamato legalità.
Hai avuto modo di incontrare il giudice Borsellino per un’intervista. Puoi raccontarci in quale occasione è maturata? Le impressioni che ti ha lasciato il giudice divenuto il simbolo della lotta contro Cosa Nostra?
V.Vasile: Quando Falcone non era ancora Falcone e meno che mai Borsellino era Borsellino, li conobbi, li frequentai, quelli del “pool” messo su dalle macerie di un Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo dal capo, Rocco Chinnici. Che era più anziano di me di una ventina d’anni, e di loro di una decina, ma li chiamava “i miei ragazzi”. Chinnici prese un paio di rapporti di polizia insabbiati dai suoi predecessori, convocò alcuni – pochi – investigatori della polizia, dei carabinieri e della guardia di Finanza di cui si fidava. Disse loro di sviluppare in un’ottica complessiva storie e personaggi fino allora slegati, suggerì di andare nelle banche e di sviluppare il filone dei traffici di droga. E scelse uno per uno i “suoi ragazzi” che riteneva più adatti a seguire le varie inchieste che intravedeva in quei brogliacci. Già da allora al fianco di Falcone in un’inchiesta parallela sui traffici di droga c’era Borsellino (che noi cronisti di giudiziaria non sapevamo essere un amico di infanzia di Falcone, ma più che altro uno che da giovane aveva militato in gruppi di destra e soprattutto sottovalutavamo perché imparentato con un anziano magistrato tradizionalista che era stato primo presidente della Corte d’appello di Palermo). Ci volle poco a capire che si trattava di un tandem affiatato, che ebbe la sua prova del fuoco nell’inchiesta sul gruppo mafioso che aveva aiutato Sindona nel falso sequestro Gambino Inserillo Di Maggio, legato da una ragnatela di parentele a potenti capi mafia dell’altra parte dell’oceano. Mostrarono – quando i computer erano ancora una rarità nei palazzi di giustizia – una grande capacità di accumulare e organizzare informazioni e nessi e di mettere a frutto le indagini di investigatori bravissimi, che spesso pagheranno con la vita il loro impegno, come Boris Giuliano e poi Ninni Cassarà o il colonnello dei carabinieri Emanuele Basile. E finalmente trovarono una sponda nella procura della Repubblica diretta da Gaetano Costa, isolato da quasi tutti i suoi sostituti e anche lui ucciso. Erano anni – quelli sul finire dei Settanta – in cui i delitti di mafia, anche i grandi delitti, non guadagnavano le prime pagine, e i riflettori dell’opinione pubblica erano puntati sul terrorismo.
Chinnici avevo più confidenza, mi parlava con fierezza dei “suoi ragazzi” che avevano sfornato pagine e pagine che avrebbero dato una svolta alla storia non solo giudiziaria della lotta alla mafia. Falcone, gentilissimo, ma di una riservatezza disarmante riguardo al suo lavoro (era in vigore il processo istruttorio, sinonimo di segreto, e come sappiamo i giudici di Palermo seppero tenere segrete per mesi e mesi le rivelazioni di Buscetta); Borsellino – un po’ più loquace – almeno qualche dritta te la dava (e molti di noi sospettavano che la divisione dei ruoli fosse concordata). Tutto ciò si svolgeva ogni mattina al piano terra del tribunale, nessun vetro blindato, suonavi il campanello ed entravi negli uffici, sebbene Chinnici avesse chiesto più volte tutele scorte più efficaci, fino alla vigilia della morte, 29 luglio 1983, la prima strage ormai dimenticata con un’autobomba, i carabinieri e i portieri dove il giudice abitava uccisi assieme a lui.
C’era già stato il maxiprocesso, Falcone era “aggiunto” in procura (e qualcosa trapelava di attriti con il capo), io mi ero trasferito a Roma e tornavo a Palermo come inviato: prendo il telefono e chiamo Falcone, che accetta un’intervista di “bilancio”, mi pare, a due anni dal maxi processo dal quel speravo di far venire fuori la guerra sotterranea che veniva fatta ai giudici del maxiprocesso, dopo essere stati esaltati come i paladini dell’antimafia. Arrivato a Palermo, una doccia fredda, Falcone mi dice che ci ha ripensato, mi offre un’alternativa, chiamare paolo – nel frattempo procuratore a marsala – ed era sottinteso che parlare con lui sarebbe stato eguale.
Non c’ero mai stato in quel salotto, e mi accorsi di non avere mai parlato per davvero e conosciuto per davvero Borsellino. Che mi disse che lo stato per il quale avevano combattuto ormai dava tutti i segni di averli abbandonati, i giudici-ragazzi di Palermo. E mi rivelò particolari privatissimi delle conseguenze di quello stato d’assedio. Per esempio i problemi psicologici di una delle figlie dopo la “detenzione” all’Asinara di tutta la famiglia, assieme a Giovanni e a Francesca Morvillo, quando i due amici di infanzia del quartiere Kalsa si erano ritrovati a scrivere le mille e più pagine della sentenza di rinvio a giudizio del maxi processo, e di punto in bianco dal ministero avevano fatto sapere di non poter garantire l’incolumità loro e delle famiglie. Poi avevano presentato il conto della permanenza nell’isoletta-carcere, come se si fosse trattato di una vacanza. Con le lacrime agli occhi, diede un bacio sulla guancia alla ragazza: “Va in palestra qui di fronte, ma come faccio a impedirglielo o a farla scortare? Così mi affaccio e prego. Queste cose, la prego, non le scriva, sennò aggrava la sua tensione, e i problemi aumentano”, mi chiese strascinando le parole dolorosamente e accendendo la ventesima sigaretta. E io evitai di scrivere troppi particolari. Ma Borsellino quella volta mi rivelò con un sorriso soddisfatto che Leonardo Sciascia, dopo averlo attaccato, aveva chiarito con una lettera il suo pensiero e che così aveva sentito il bisogno di fare con Falcone. E del resto non era stato proprio lo scrittore siciliano a mitizzare la forza di “uomini di tenace concetto” in grado di combattere la mafia? A quindici anni – gli raccontai – mi era capitato di affrontare proprio questa questione con lo scrittore in un dibattito pubblico:, io ero molto scettico che funzionari dello stato, poliziotti o magistrati potessero battere la mafia (dopo un secolo di connivenze e trame che avevo precocemente appreso da libri e giornali), e Sciascia garbatamente mi aveva invitato ad abbandonare gli schemi ideologici, per apprezzare, appunto, quegli uomini di tenace concetto. Quando erano apparsi all’orizzonte Falcone e Borsellino, li aveva scambiati invece per professionisti dell’antimafia… Ci mettemmo d’accordo perché io recuperassi il resoconto stenografico di quel dibattito pubblico alla Kalsa per il centro di cultura presieduto da Danilo Dolci, al quale avevamo partecipato e glie lo inviassi a Palermo. Ma me ne scordai, passò tanto tempo, la volta successiva che poi incontrai Paolo Borsellino fu al suo funerale.
Quali sono i sentimenti che dominano a distanza di vent’anni?
V. Calcara: Mi resta tanta rabbia, perché ancora purtroppo non si è arrivati alla verità. L’altra nota amara è che vedo molto ipocrisia soprattutto in chi combatte la mafia. È una lotta vuota, portata avanti solo per interessi e tornaconto personale. Persone grandi come Paolo Borsellino si dovrebbero ricordare ogni giorno. La sua lotta e il suo esempio dovrebbero essere sempre vive.
Tu eri l’uomo che era stato designato da Cosa Nostra per uccidere Borsellino. Il suo incontro ti ha cambiato la vita. Qual è il primo ricordo che ti viene quando penso a lui?
La grande professionalità di magistrato, la grande umanità e il coraggio. Paolo non era secondo a nessuno. Insieme a Falcone, rappresentano i veri simboli della lotta alla criminalità organizzata. Borsellino è morto perché rompeva le corna a tutti.
Puoi spiegarci come nasce il movimento delle Agende rosse e gli intenti che si propone?
Oreste Iacopino:Il movimento “Agende Rosse” nasce dall’appello di Salvatore Borsellino
ed è composto da persone di tutte le età provenienti da tutta Italia.
Tutto gira attorno all’agenda rossa del giudice Paolo, smarrita quel
19 luglio in via D’Amelio, nonostante ci siano varie immagini che
ritraggono un carabiniere (Ten. Arcangioli) con la borsa del
magistrato in mano, l’agenda rossa dove Borsellino annotava tutti i
suoi colloqui con i collaboratori di giustizia pare persa nel nulla.
E’ peculiare la scelta del movimento di appoggiare i vari magistrati
(Ingroia, Di Matteo, Scarpinato) occupati nelle indagini sulla
trattativa Stato-Mafia e sulla morte del giudice.
Qual è il messaggio più bello che ti ha lasciato Paolo Borsellino?
Credo che il messaggio più bello di Paolo Borsellino sia quello del
rifiuto al compromesso morale rivolto principalmente a noi giovani e
il 19 luglio ne siamo davvero tanti, vuol dire che l’idea di
Borsellino in molti la portiamo avanti.