Presentato anche a Palermo l’ultimo lavoro di Raffaella Cosentino “Sul fronte del mare”, mediometraggio nato per raccontare le spietate politiche di frontiera in un’Italia vestita di inflessibilità e studiato rigore.
Orde di navi mercantili, camion blindati e treni merci hanno attraversato la frontiera barese nel tentativo di trasportare centinaia di migranti, quasi fossero articoli di bassa qualità di cui liberarsi al più presto per far ritorno alle proprie vite. A sorvegliare il confine c’era anche Nicola Montano, poliziotto ormai in pensione dopo oltre quarant’anni di servizio, il suo è il punto di vista adottato nel corso delle riprese.
Era compito di Montano accertarsi che nessun clandestino si insidiasse in territorio italiano e provvedere ad eventuali “riammissioni” coatte. La riammissione, lo spiega la Cosentino, non è altro che il rimpatrio immediato del soggetto, senza indugi ne esitazioni. Montano, vicino alle battaglie studentesche del ’68 ma costretto a vestire i panni del repressore, non si è mai piegato al dissidio interiore con cui per anni è stato costretto a convivere.
“Per me fare il poliziotto significava combattere i criminali, ma questo… Loro li chiamavo ladri di stelle, perché per me non rubano proprio niente”. Già, non rubano nulla eppure sono messi al bando ancor prima di toccare terra, colpevoli delle loro radici, rei di esser nati dove non esiste pace. Ma a chi indossa una divisa non può importare, almeno finché non termina il servizio e fa ritorno a casa. Montano quella divisa l’ha ormai abbandonata e adesso per lui è arrivato il momento di dimenticare ruoli e compiti: al fianco dell’avvocato Luigi Paccione sta conducendo un’agguerrita battaglia legale per chiudere il Centro d’Identificazione e di Espulsione (CIE) del capoluogo pugliese, dove a suo dire è in corso una dichiarata e palese violazione dei diritti umani. Dei CIE e di un’Italia asservita alla disumanità ci parlerà la stessa Cosentino, donna e giornalista fermamente convinta della necessità di una svolta nelle politiche d’accoglienza nazionali e non solo.
Palermo, febbraio 2011: in Via Ernesto Basile un giovane nordafricano di soli 28 anni si dà fuoco, dopo aver invano supplicato le forze dell’ordine affinché non sequestrassero la sua merce, in vendita senza regolare permesso. A seguito di simili accadimenti si è parlato di un’Italia “legalista”, dove le norme governative avrebbero maggior importanza della dignità e del rispetto reciproco. Ma si tratta di una forma mentis diffusa o piuttosto riguarda quasi unicamente il trattamento dei migranti in terra straniera?
“Beh, in realtà sembra che i migranti e i rifugiati siano tenuti al rispetto pedissequo di tutte le leggi, mentre gli italiani no. Mi spiego meglio: con gli stranieri, specie se provenienti dall’Africa o dall’Asia Minore, le forze dell’ordine mantengono una rigidità non comune, del tutto differente.
Inoltre spesso si tende a dimenticare come la responsabilità penale sia assolutamente individuale, imputabile unicamente agli autori del reato. Quando a commettere un crimine è un rifugiato, le accuse vengono rivolte in primis al popolo d’appartenenza, quindi a tutti i migranti. Naturalmente faccio riferimento ad un’opinione pubblica fuorviata, intenta a combattere una logorante battaglia contro un nemico invisibile. Basti pensare al caso si Rosarno: la popolazione si è più volte scagliata contro i migranti, ma mai contro le mafie che da decenni ne ledono gli interessi e ne danneggiano il territorio.”
Nel docufilm da Lei diretto la prospettiva preminente è quella delle forze dell’ordine, talvolta combattute fra il rispetto delle proprie mansioni ed il desiderio ad agire secondo coscienza. In un mondo in cui non scegliere non può essere una scelta, quanto a Suo parere si può scendere a patti con la propria umanità?
“Non è mio compito asserirlo, non posso ergermi al ruolo di giudice. Tuttavia desidero ricordare come Montano possa rappresentare la statura della coscienza di noi europei. Dentro ciascuno di noi vi è senza dubbio un dissidio simile, anche se silente. Anche se a volte non ce ne rendiamo conto.”
Il protagonista del Suo corto, Nicola Montano, sostiene la necessità di chiudere i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), perché molto più simili ad un carcere che ad un centro deputato all’accoglienza dei migranti? Lei è d’accordo? Se sì, che genere di alternativa proporrebbe?
“Con CIE si allude ai Centri di Identificazione e di Espulsione, luoghi in cui i migranti sono costretti a permanere senza motivazione alcuna. Sono carceri extra ordinem, come li definisce l’avvocato Paccione nel documentario, centri di detenzione amministrativa per cui non esiste alcuna regolamentazione. Lì dentro c’è un numero di detenuti, rinchiusi senza aver commesso reati e costretti a vivere in condizioni igienico-sanitarie più che discutibili. Per non parlare poi dell’instabilità delle strutture!
Nel 1999, presso il Centro di Permanenza Temporanea di Trapani – era questa la precedente denominazione – un gran numero di “ospiti” sono morti a causa di un incendio, arsi vivi perché impossibilitati a lasciare la stanza in cui si trovavano: le porte non si aprivano, non avevano altra scelta.
Si tratta di un abuso legalizzato a cui è necessario porre fine. E non servono alternative: i CIE non servono! Si dovrebbe parlare di riforma delle procedure per l’accettazione di queste persone nel nostro Paese, piuttosto che di inammissibili misure detentive.”