All’età di
sedici anni circa, sono entrata nel mondo del volontariato, senza capire cosa
potesse significare realmente un’esperienza del genere e quali sarebbero state
le conseguenze.
Ho trascorso
del tempo accanto a chi nella vita ha avuto difficoltà, e nel mio piccolo
volevo aiutare, volevo lasciare qualcosa di me in quelle persone.
Non avrei
mai potuto immaginare che queste esperienze avrebbero avuto la capacità di
cambiare la mia vita.
Ero già
stata in un centro di accoglienza per un evento culturale al quale avevo preso
parte ma non avevo mai percepito la pesantezza e il dolore del viaggio delle
persone che ospitate lì dentro.
La mia mente
immaginava un viaggio in aereo, una valigia, gente che aspettasse all’aeroporto,
diciamo che immaginavo il viaggio raccontato dai miei genitori quando hanno
deciso di lasciare la Tunisia per venire in Italia.
Passaporto e visto in una mano, una valigia con il minimo indispensabile
nell’altro, un contatto già stabile in Italia e tanto tempo e fortuna per poter
diventare indipendente, trovare lavoro e parlare italiano.
Tutto questo
finì quando, entrando a far parte della croce rossa della mia città, ho preso
parte del primo sbarco.
Divisa addosso, tanta ansia e curiosità. Entrammo nel porto di Messina e vidi
una grande nave militare con tanta gente dentro, delle coperte termiche
addosso, tante tende fissate in ordine, tanti operatori, ambulanze, volontari e
forze dell’ordine.
Montammo la tenda della croce rossa e scendemmo le scatole con del vestiario.
Mi diedero
il compito di affiancare un medico compilando le schede sanitarie della gente
che nel frattempo scendeva in ordine dalla nave.
Arrivò il
primo uomo, vestiti sporchi, senza scarpe, un’aria stanca, occhi profondi e
spaesati. Cercavo di capire in che lingua parlasse per avere le prime
informazioni. Mi mostra un numero su un braccialetto di carta arancione, non
capisco ma il medico accanto a me mi suggerisce di scrivere il numero sulla
scheda che avevo sotto mano e lì capisco che è un’identificazione.
Così fu per
una centinaia di gente che prima stava sulla nave. Tutti in fila, stanchi,
sotto il sole scalzi a seguire gli ordini degli operatori che mettevano tanto
impegno e amore in ciò che facevano. C’era chi si occupava delle
identificazioni, chi delle registrazioni, chi distribuiva vestiti e scarpe, chi
creava dei punti dove svolgere brevi colloqui psicologici, altri ancora avevano
problemi di salute e venivano portati dentro le tende per essere visitati e chi
riportava qualcosa di grave veniva trasportato in ambulanza fino in ospedale.
A fine
giornata, dopo tante ore di lavoro, venivano portati via da pullman.
C’era tanta gente, uomini, donne, bambini, anziani e malati, e io mi sentivo
come una bambina curiosa con il naso attaccato alla vetrina di un negozio di
giocattoli. Piano piano cercavo di capire cosa stesse succedendo e ho così
scoperto che quelle persone venivano da molto lontano, che si abbandonavano
alle braccia del mare con tanta voglia di sopravvivere. Percepii dai loro
sguardi che si trattava di tanta sofferenza, di voglia di vivere, di speranza,
ecco, un viaggio della speranza con il quale lasciavano dietro tutto e si
portavano solo un bagaglio di sogni e ricordi.
Monia Ben
R’houma