di Tonino Cafeo
“Di cosa sarà fatto il domani ” ? Se lo chiedeva uno dei più importanti filosofi francesi viventi, Etienne Balibar, in una riflessione uscita sullo storico quotidiano della sinistra transalpina Liberation alla vigilia del voto di ballottaggio per le presidenziali.
Oggi che il risultato è acquisito ed Emmanuel Macron è presidente della Repubblica francese dopo aver doppiato in voti assoluti la rivale Marine le Pen ( 20,8 milioni , contro i 10,6 milioni della candidata dell’estrema destra) qualche considerazione è possibile farla. Ma sarebbe banale limitarsi a quello che è il dato più evidente , e cioè il confronto diretto fra i primi due classificati in una gara elettorale a doppio turno.
Alla fine della prima tornata elettorale pochi decimali separavano i quattro candidati più importanti: Emmanuel Macron, François Fillon , Marine Le Pen e Jean Luc Mèlénchon; tutti – con l’eccezione di Fillon , che si è presentato come erede della tradizione gollista, hanno lanciato messaggi di rottura con il sistema politico tradizionale ed hanno raccolto consensi sulla base del diffuso senso di diffidenza e ostilità verso il sistema.
La versione più truce di questo sentimento- quella incarnata dal nazionalismo lepenista,a base di odio razziale e amministrazione della paura, è stata sconfitta senza equivoci grazie al voto di Parigi e delle grandi aree urbane. Rimane in campo l’opzione al momento vincente, quella che proviene dal seno stesso delle classi dirigenti. Macron , infatti, prima di mettere in piedi “dal nulla” il movimento En Marche e avviarsi alla conquista dell’Eliseo è stato non solo un brillante finanziere ma innanzitutto vice segretario generale della Presidenza della Repubblica durante la prima parte del mandato di François Hollande e autorevole ministro dell’economia nella squadra di governo di Manuel Valls. In questa veste è stato promotore di una serie di provvedimenti a favore delle imprese e contro i diritti dei lavoratori – fra cui la famigerata loi travail , versione transalpina del Job’s act- che hanno scatenato una stagione di lotte sociali e di scioperi come non se ne vedevano da anni.
Un esponente a pieno titolo dell’alta borghesia francese , testa pensante di un governo fra i più odiati , spariglia dunque le carte e porta a compimento un’operazione di rottamazione che ha riacceso gli animi di tutti i sostenitori del nuovismo e della potenza del libero mercato. A suo merito va sicuramente l’aver preso le distanze dal clima di paura indotto dal terrorismo internazionale. Le parole d’ordine della sua campagna elettorale si sono tenute a distanza dalle suggestioni islamofobiche, dalle richieste di chiusure dei confini e legislazioni speciali antiterrorismo. Hanno piuttosto puntato senza equivoci sul rilancio dell’europeismo, sui diritti individuali, sull’esaltazione di un’identità della Francia come patria dei valori universali dell’ottantanove. Tuttavia della triade rivoluzionaria nel discorso pubblico di Emmanuel Macron sembra salvarsi solo la liberté , con un pizzico tutto formale di fraternitè. Poco o nessuno spazio per l’egalitè, impossibile da perseguire con un programma economico a base di tagli drastici alla spesa pubblica , ulteriore precarizzazione del lavoro, investimenti esclusivamente riservati al settore privato. La ricetta dell’austerità che ha già distrutto il Partito Socialista, prima svuotato della propria identità dal’interno e poi demolito da quei notabili- in testa Valls , Ségòlene Royale e molti altri che hanno governato con Hollande e ora sono tentati dall’approdo centrista e modernizzatore di En Marche.
Un quadro politico che soddisfa solo quel ceto medio alto che si è riconosciuto nel new labour di Tony Blair, nel nuovo centro di Scrhroeder e nel Partito Democratico in Italia e che ha potuto vincere a mani basse solo perché il sistema elettorale gli ha posto davanti l’avversario più comodo: quella Marine Le Pen, che nonostante gli sforzi, non riesce a scrollarsi di dosso l’identità reazionaria e regressiva della vecchia Francia colonialista e paesana.
Il domani della Francia e del’Europa dunque sarà quello di un ritorno agli anni 90, con il trionfo dei mercati sulle cosiddette forze populiste- messe tutte nello stesso sacco , senza distinzioni fra destra e sinistra ? A guardare bene la distribuzione geografica e sociale del voto francese la risposta non può che essere negativa. La coalizione sociale formata dalle mille figure del lavoro precario , dagli studenti parigini , dai migranti , con il sostegno pesante della CGT ( lo storico sindacato francese vicino ai comunisti ) si è già rimessa in movimento manifestando contro il nuovo Presidente all’indomani del voto, ma ancora più importanti sono due fatti chiari. Primo, Il messaggio lepenista ha ancora una forte presa nel nord e nell’est del paese, zone di antica tradizione industriale fortemente impoverite dalla globalizzazione dei mercati ; secondo, L’unica sinistra che è stata in grado di contendere palmo a palmo la rappresentanza politica della rabbia dei troppi lasciati indietro e di incanalarla in un progetto non dominato dalle paranoie collettive porta il nome di France Insoumise ed ha il volto di Jean Luc Melenchon. L’alto numero di schede bianche e l’alta astensione ( mai così dal 69) dimostrano che la sua freddezza verso il richiamo tradizionale del voto al meno peggio ha trovato riscontro in un sentimento diffuso e consolidato.
Tra circa un mese , alle elezioni per L’Assemblea Nazionale, si vedrà se l’opposizione al governo delle élites resterà monopolio dell’estrema destra oppure se France Insoumise sarà in grado di proporsi come forza parlamentare strutturata e di unire nello stesso percorso i comunisti del PCF e quella parte del PS che , riconoscendosi nelle posizioni del candidato presidente Benoit Hamon , non vuole rinunciare all’identità di forza popolare e di sinistra. I primi segnali sono contraddittori, ma l’esempio di Podemos , di Syriza e della sinistra portoghese dimostrano che , volendo , tutto è sempre possibile.