Due giorni, una notte

Due giorni, una notte è un film del 2014 scritto, diretto e prodotto dai fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne. La pellicola ha partecipato alla 67ª edizione del Festival di Cannes. È la storia di Sandra (Marion Cotillard), operaia in una piccola azienda di pannelli solari, che dopo un lungo periodo di malattia per depressione rischia di perdere il posto di lavoro. Il proprietario della fabbrica, che durante la sua assenza è riuscito a riorganizzare il lavoro con un operaio in meno, propone agli altri dipendenti un aut-aut: scegliere tra un bonus di mille euro ciascuno e il licenziamento di Sandra. Gli operai decidono di imbastire un referendum interno e la prima votazione risulta essere ampiamente a favore del bonus. L’amica-sindacalista Juliette, però, riesce a convincere il padrone – poiché la prima votazione era stata influenzata dalle minacce del capo-reparto, contrario al reintegro di Sandra – a ripetere il referendum lunedì mattina. Sandra ha un weekend, due giorni e una notte appunto, per convincere i colleghi a ridarle il posto di lavoro e a rifiutare i soldi.

Il cinema dei Dardenne ci invita a sbirciare la realtà cruda che scorre attraverso lo spioncino della macchina da presa, storie comuni che assumono la drammaticità della più incredibile delle favole. In questo cinema privo di ornamenti, fatto di semplici primi piani, piani americani e piani sequenza, gli effetti speciali li ritroviamo nel viso struccato, scavato, negli occhi disperati ma tenaci di una Cotillard che si spoglia del glamour hollywoodiano per regalare un’interpretazione intensa e convincente. O ancora nello scontro drammatico tra i personaggi. Storie diverse, parte di un mondo globalizzato che invece di emanare il profumo del progresso ha l’aspetto di una giungla in cui per sopravvivere ci si deve sbranare uno con l’altro e dove il più debole è meramente destinato a soccombere. Siamo solo ciò che produciamo. Siamo solo la nostra performance.

La depressione di Sandra diventa come il dito mozzato del Lulù/Volonté de La classe operaia va in paradiso. Un handicap che ripone ai margini un essere umano rigurgitato dalla società a cui prima apparteneva, per essere così privato di ogni possibilità di riottenere la sacrosanta dignità. Questa via crucis porta a porta, questo struggente viaggio nell’epica proletaria, ci lascia tuttavia intravedere dei bagliori di speranza. Il primo è rappresentato dalla famiglia, da quell’amorevole e instancabile marito che non smette mai di consolare Sandra, di spronarla. L’uomo che la accompagna in giro con la macchina, che la salva dal tentativo di suicidio e che promette di non lasciarla mai sola. Dai due piccoli figli che si danno da fare per procurare gli indirizzi dei colleghi alla madre. Il secondo dall’empatia. L’empatia che unisce, nel Belgio multirazziale, diverse famiglie, diverse situazioni personali, etnie che condividono le stesse paure. L’empatia che porta la stragrande maggioranza dei colleghi di Sandra a giustificarsi, a sentirsi in colpa, persino a ritrattare le proprie convinzioni, di fronte ai modi garbati e alla fragile ma meravigliosa umana debolezza che la donna pone dinanzi ai suoi interlocutori. L’empatia che ci fa immedesimare negli altri e ci porta ad aiutarli.

Attraverso questo confronto/scontro di storie diverse, eppure così simili tra loro, i Dardenne ci condurranno fino al lunedì mattina, il giorno del giudizio, regalandoci la suspance del miglior Hitchcock.

I film dei Dardenne, da sempre attenti alle tematiche sociali, non rinunciano al gusto estetico e a svolgere quello che possiamo considerare uno dei compiti “sacri” dell’arte cinematografica: far prendere coscienza del mondo che ci ruota intorno. Con il film Rosetta del 1999 riuscirono persino a far promuovere una legge contro la disoccupazione e la protagonista del film divenne in tutto il Belgio simbolo della lotta per il lavoro e della disoccupazione giovanile. Nelle manifestazione sindacali, nell’anno del film, si gridava: “Siamo tutti Rosetta”.

Diceva lo scrittore Marcel Proust: ”Solo attraverso l’arte usciamo da noi stessi e conosciamo un’altra percezione dell’universo” e quest’opera diventa una fotografia del tempo in cui viviamo e in cui nessuno può fare a meno di riconoscersi. Anche stavolta “Siamo tutti Sandra”. 

 

Stefano Cattafi