Solo 150 anni dopo
Giorgio Napolitano è pronto, emozionato come un giovinetto al primo giorno di scuola, da vecchio comunista “di destra” sente il peso della festa, di uno Stato che ha visto cambiare, ridisegnarsi nel tempo, da quando era un giovane studente di Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, passando per gli incarichi di partito, le conferenze internazionali, le vedute riformiste, gli scontri con Berlinguer e le aperture alla Dc, fino a Tangentopoli, al Ministero dell’Interno nel 1996 e al Parlamento Europeo, ed ora è lì, Presidente della Repubblica Italiana, a ricordare il valore dell’Unità in questo Paese diviso ed insignificante nei sui ridicoli protagonisti politici. Il poderoso riferimento ai valori della libertà dall’invasore del suolo e della cultura nazionale, in Giorgio Napolitano, deve essere maturato con il passare dei lustri, lui che dalle righe dell’Unità, nel 1956, elogiava l’invasione sovietica dell’Ungheria in rivolta contro il socialismo stalinista: «L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo» diceva. Quanto tempo per ripensare a quelle parole. Per questo dedico quest’Unità d’Italia agli studenti ungheresi che il 23 Ottobre del ’56 marciarono contro un regime brutale ed assassino per difendere la dignità di una Nazione, di un popolo oppresso ma mai sottomesso.
Roberto Maroni, diligente uomo di Partito e di Governo, anche lui è pronto, e il 17 mattina sarà nel suo ufficio al Viminale, a lavorare – dice lui – per la sicurezza di un Paese che si prepara ad un’imminente nuova invasione da parte dei cartaginesi – fortunatamente privi di elefanti stavolta – , lui che al tricolore ha sempre preferito altro, la bandiera rossa di Democrazia Proletaria prima, quella verde della Lega poi, lui indagato per vilipendio all’unità nazionale, per attentato alla Costituzione e creazione di struttura paramilitare fuorilegge, secondo il Decreto Legislativo n°43 del 14 Febbraio 1948 – per inciso: Decreto Legislativo voluto dai Costituenti per impedire l’ascesa di nuove “camicie nere” nella realtà sociale italiana, ed abrogato da un nuovo D.L., il n°66 del 15 Marzo 2010, emanato durante l’attuale governo Berlusconi IV – che recitava: «Chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici, è punito con la reclusione da uno a dieci anni». Si parla della Guardia Nazionale Padana. Per questo dedico quest’Unità d’Italia a Nicola Tommasoli, che la notte del 30 Aprile 2008, in quel di Verona – la Verona della caccia agli zingari del sindaco Flavio Tosi, per inteso – veniva pestato a morte da un gruppo di individui legati a movimenti dell’estrema destra cittadina, causa il rifiuto di offrire una sigaretta – dicono. Escoriazioni, due dita fratturate, un evidente livido tra spalla e collo e una emorragia cerebrale in corrispondenza della nuca. Cinque giorni di agonia, poi la morte. La “sicurezza” leghista non fallisce.
Emma Marcegaglia lavorerà anch’essa questo giovedì di Marzo, per non contribuire ai 6 miliardi di euro di perdite che le aziende otterranno dalla festività; lavorerà lei, a differenza di quei lavoratori oziosi che saranno costretti alle ferie dall’ennesimo Decreto-Legge del Governo, già pronti a vedersi decurtare questa giornata di festeggiamenti dal monte ore per le “festività soppresse” – quelle del 4 Novembre. Il leader di Confindustria è più tranquillo adesso che le perdite aziendali sono state ridistribuite fra gli impiegati, con i padroni che sospirano col sorriso sotto i baffi. Oggi più di ieri l’Unità la fanno i cittadini – con il cuore e con le tasche. Per questo dedico quest’Unità d’Italia al Movimento dei Pastori Sardi bloccato al porto di Civitavecchia come un gruppo di invasori stranieri, agli operai della Vinyls che da un anno occupano il carcere dell’Asinara, ai ricercatori dell’Università italiana che sono saliti sui tetti, ai lavoratori italiani che credono ancora che questo Paese possa cambiare, ai cassintegrati, ai precari, ai disoccupati che questa Nazione sta abbandonando, a tutte le persone che da anni aspettano un sindacato non asservito. Dedico quest’Unità ad uno sciopero generale vero, a questo Paese che ne ha bisogno come il pane.
Umberto Bossi e la sua Lega Nord sono vestiti di un verde opaco, lutto padano, e attendono la ricorrenza come un bambino attende il mostro che sta per uscire dall’armadio: da Varese i lanzichenecchi tuonano «l’inno di Mameli è un inno all’oppressione», mentre Borghezio vorrebbe fucilare il cadavere di Garibaldi e Calderoli sarebbe intenzionato ad abolire anche il 1° Maggio, ma la calma fra le forze politiche della cosiddetta “maggioranza” torna a regnare grazie all’imminente istituzione della “Festa della Lombardia”, con tanto di Croce di San Giorgio – vessillo dell’antico Ducato di Milano – che sventolerà dai Municipi padani. In questo fausto giorno – asserisce il capogruppo leghista in Consiglio Regionale, che in queste righe condanno alla damnatio memoriae, in quanto hostis della Patria – «non si lavorerà». Probabile proclamazione della festa “del Nord” il 29 Maggio, data della Battaglia di Legnano. Festeggerò anch’io, credo sarebbe davvero patriottico se per l’occasione tornasse anche il Barbarossa per una rivincita. Forse, invece, in questo giorno di Marzo, i longobardi festeggeranno San Patrizio, facendo sventolare alta la loro bandiera crociata simbolo dell’oppressore britannico. Per questo dedico quest’Unità d’Italia a due uomini, Daniele Manin e Robert Gerard Sands, un veneto ed un irlandese, patrioti e rivoluzionari, repubblicani, uomini di popolo e di galera, spettri per gli oppressori di ogni tempo e luogo.
Joseph Ratzinger, già Benedetto XVI, è fermamente convinto che alla base dell’Unità nazionale vi siano i principi «di sussidiarietà e di solidarietà, tipici dell’insegnamento sociale della Chiesa». Fu probabilmente in virtù di ciò che, poco più di centocinquant’anni fa’, Pio IX ciabattò piangendo fino alla corte di Napoleone III per far spazzare via la Seconda Repubblica Romana di Mazzini, Armellini e Saffi, e le sue blasfeme idee liberali e democratiche. Oggi c’è chi rivendica l’illegittimità del destino dello Stato Pontificio, che in mille anni e più di Storia fu sempre dalla parte dei peggiori despoti dell’Occidente, rosicchiando terreni a Nord e a Sud, fagocitando le anime degli uomini dentro le segrete del silenzio. Per questo dedico quest’Unità d’Italia ai patrioti carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, decapitati in Piazza del Popolo il 23 Novembre 1825, sotto il pontificato di Leone XII. Sul patibolo, prima dell’esecuzione, fieri e liberi, pronunciarono queste parole: «Non abbiamo conto da rendere a nessuno: il nostro Dio sta in fondo alla nostra coscienza».
Ignazio La Russa, gentile Ministro della Difesa di questa Repubblica, è certamente il più impegnato nella proclamazione e nella difesa dei valori di questa festa tutta italiana, lui massimo portatore del sentimento di una Nazione unica e libera, libera unita e gloriosa. La farebbe festeggiare pure in Etiopia e Somalia questa festa nazionale, pure in Eritrea questa festa importante, portatrice del sommo valore della romanità, in questo giorno, il giorno della morte dell’imperatore Marco Aurelio e della funesta ascesa al trono della follia di Commodo. La farebbe estendere a tutte le province dell’impero il nostro eccelso Ministro, lui che solo poco tempo addietro poneva sullo stesso piano i partigiani e i “suoi” repubblichini, figli di quella Repubblica Sociale che ha dilaniato questo Paese, l’ha spaccato ed annientato, ed ha aperto le porte all’invasore, alla barbarie tedesca, agli eccidi nazisti. Per questo dedico quest’Unità d’Italia ai partigiani italiani, che sono stati capaci di ritrovare l’orgoglio di una libertà e di una terra rubate, ed in particolare alla Brigata Osoppo, liberale socialista e cattolica, scannata dai partigiani gappisti del IX Corpus sloveno nel febbraio 1945 in Friuli.
C’è chi non festeggerà l’Unità d’Italia, chi rimpiange i Borboni, lo Sato Papale, chi addirittura ha nostalgia degli austriaci. Io festeggerò, se non perché fiero della Patria, almeno perché assolutamente convinto che per cambiare qualcosa devi vedere in essa un briciolo di bontà, di giustezza, di speranza. Per avere la forza di lottare devi trovare in quello per cui lotti almeno qualcosa di buono, non molto, solo un po’. E il buono in Italia c’è ancora, e ci credo, che prima o poi, uscirà fuori definitivamente, e la Nazione, il suo popolo, risorgeranno insieme. E saremo fieri di essere italiani.