È giunta l’ora, perche’ la vostra maschera e’ finalmente riconoscibile

di Giulia Carmen Fasolo

 

È giunta l’ora” il titolo del Convegno regionale tenutosi questa mattina, dalle 9:00 alle 14:00 circa, nei locali dell’Auditorium “La Rosa” di Barcellona Pozzo di Gotto. L’impeccabile organizzazione, curata in ogni dettaglio da Fiorella Torre per conto della Casa di Solidarietà e Accoglienza, è stata rivolta a discutere i mezzi e le metodologie per assumere – lavorativamente parlando – persone con disagio mentale, affinché diventi una scelta costante delle imprese del privato sociale. I ventagli delle scelte richiedono, quale trampolino propedeutico di cambiamento, il superamento della paura di ciò che non si conosce, di una maggiore attenzione alle capacità piuttosto che alla disabilità. L’inserimento lavorativo di coloro che perdono il nome per assumere l’attributo di “disagiati mentali” (diversi da “malati”, perché la malattia si cura, non si emargina) permetterebbe, nelle accezioni più pregevoli, una contrazione della spesa sociale e assistenziale; assicurerebbe – così si dichiara nel manifestino dell’evento – alte prestazioni lavorative (e di quelle utopiche ne sono state raccontate diverse questa mattina), un migliore clima aziendale e soprattutto dovrebbe dare – nelle utopie più nobili e articolate – dignità e importanza alle vite di questi figli di un dio minore. E tutte queste belle intenzioni sono suggerite anche dalle prospettive che sono venute fuori dall’ILO nel 2004, come fossero strisce pedonali sui quali camminare senza esserne investiti.

Ma tutto questo – che trasborda da un imbuto stretto dal quale cadono poche gocce di risorse economiche – sfocia nell’amara constatazione che questa realtà di reale cambiamento risulta essere ancora una utopia nel nostro territorio. Il convegno aveva l’intenzione, attraverso gli interventi di autorevoli presenze tra cui Padre Pippo Insana, Angelo Righetti, Antonella Cammarota, Fiorentino Trojano, Antonino Ciraolo, Salvo Cacciola, etc. (moderati da Gino Gennaro) di adoperare una lente di ingrandimento sul Percorso Terapeutico Riabilitativo Individualizzato (PTRI).

Peccato che i partner del Convegno sono stati i soliti elefanti sociali (CeSV, Arci, Avulss, …). Giorgio Gaber aveva ragione nel suo monologo “Se io fossi dio” (quello alternativo del 1991): la professione sociale è un mestiere osceno, e la sua è una schifosa facciata immonda. E, dunque, caro Padre Pippo, qui non è un problema di burocratizzazione, di occultamento delle risorse economiche, degli impiegati statali incollati alle loro poltrone, di incapacità di progettare fattorie sociali, qui è – sempre per dirla con Giorgio Gaber – una grande macchia nera che trasforma quel privato sociale, quell’associazionismo in quel “terricomio” (per dirla ora con le parole di Righetti) che costruisce – nel territorio siciliano – un cambiamento finto, un bubbone sociale che serve solo a se stesso e al controllo delle risorse.

E non è solo un problema, per rispondere alle osservazioni della sig.ßra Nica Calabrò, di stabilire cosa ci sarà nel “dopo di noi”, cioè che fine faranno questi malati dopo che i parenti moriranno, perché – cara Nica – il problema di molti familiari è non sapere cosa ci sarà ANCHE adesso, OGGI, dei nostri fratelli, delle nostre sorelle, dei nostri figli. Nica Calabrò ha un figlio autistico, chi vi scrive ha una sorella considerata “una malata psichiatrica mediamente grave”. E quindi sappiamo di cosa parliamo.

Quelle piccole oasi, poco collegate tra di loro (come la stessa prof.ssa Cammarota ha sottolineato), non sono mosche bianche che non ronzano attorno alla merda… perché, in realtà, ne sono invase fino al collo grazie a un certo associazionismo capitalistico, fintamente di sinistra. Il problema è stabilire cosa ci sarà OGGI per loro, per questi ragazzi che hanno subito la chiusura di molte strutture. Non dimentichiamo, per citare una tra tante esperienze virtuose chiuse, la Comunità Terapeutica Assistita di Oliveri, denominata “Villa Gaya”. CTA chiusa (dicembre 2015) nel silenzio anche di molti operatori sanitari, che forse avevano altre aspirazioni e oggi non si preoccupano – almeno così pare – di quella forma di parcheggio dei ragazzi che si trovano a oziare nelle zone basse del DSM (perché in quelle alte c’è spazio solo per gli uffici). Perché, cari digerenti e cari operatori, mentre voi tornate a casa, nelle vostre sicurezze e nelle vostre dimenticanze (e fate bene, ché la malattia mentali mai vi sfiori), i ragazzi che avete volontariamente parcheggiato nell’ex day hospital del DSM di Barcellona Pozzo di Gotto, alla domanda dei familiari su cosa “hanno fatto oggi”, rispondono che “meglio fare niente, e stare zitti, che stare chiusi da qualche parte a subire quella psichiatria che finge un cambiamento che non sa costruire, né forse mai lo saprà fare”. Franco Basaglia sarebbe disgustato di certi elefanti sociali. Così, la verità è che sì, è giunta l’ora, ma è giunta l’ora di tirare giù la maschera e dire che a certuni non importa niente non tanto di quello che ci sarà “dopo noi familiari”, non importa niente che non sia il loro business sociale, che non sia il loro sicariato retribuito (per dirla alla Righetti) in questa lotta tra poveri e ricchi. Perché avete vinto e noi familiari abbiamo perso e rinunciamo. Sappiatelo: rinunciamo. Siete troppo pachidermi per noi. Ci è chiaro che la malattia mentale non sfiorerà forse mai le vostre sicurezze, ancora meno le vostre coscienze e che queste vostre associazioni che millantano una appartenenza e una sensibilità che dosano come fosse novalgina prestazioni sociali, in realtà soggiacciono alla volontà capitalistica di ammazzare ogni tentativo reale di ascolto, di dignità umana, di igiene sociale. Perché oggi la malattia mentale non è una malattia, altrimenti sarebbe anche la sanità a occuparsene seriamente. La malattia mentale è uno stigma che voi avete costruito e che si presta – non può fare altrimenti – ai vostri esercizi linguistici, che “si è rotta i coglioni” (per dirla alla Righetti) non nelle parti basse degli operatori, ma nelle parti alte dei malati che voi non potete curare, perché così sarebbe una sottrazione a quell’associazionismo che vive di quella ipocrita misericordia che fornisce capitale, che fornisce soldi, che fornisce quella millantata capacità di progettare fine a se stessa.

Noi parenti di quelli che perdono il nome, per diventare il prodotto del vostro business, vi diciamo – care associazioni – che sì, è giunta l’ora. Ma è quell’ora in cui non ci incantante più, perché sappiamo qual è la vostra anima, una carogna, un tumore che non farà morire voi, ma diventerà carcassa per dare da mangiare sempre e comunque a quell’insieme di avvoltoi che – alla fine della fiera – si chiama Stato e di cui voi siete nobili e ineccepibili mercenari e sicari.