Ero carcerato e siete venuti a trovarmi

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Negli ultimi 10 anni, secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, nelle carceri italiane sono morte 1.560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodipendenti. La violenza fra le mura del carcere è un fenomeno in crescita, sia verso se stessi che fra loro e nei confronti degli agenti.

Francesco Cascini, responsabile del servizio ispettivo presso il Dipartimento amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della giustizia, così afferma: “Quando qualcuno si uccide è sempre una sconfitta per l’amministrazione pubblica: ad oggi abbiamo accertato 48 suicidi (ma i presunti sono 66). Nel mio ufficio vengono segnalati quotidianamente 15 casi di autolesionismo: chi si cuce la bocca, chi ingoia lamette, chi si taglia. In Spagna, invece, non esistono questi episodi e si è verificato un solo suicidio dietro le sbarre negli ultimi tre anni. Lì il carcere funziona perché i detenuti restano in cella durante la notte, non per 22 ore al giorno”.

La situazione attuale nelle carceri è la seguente:

  • 65.719 i detenuti nelle carceri (40 % sono stranieri = 24.386, 25% tossicodipendenti = 15.835) 43.327 capienza regolamentare delle carceri italiane 31.136 detenuti in attesa di giudizio

33.000 già condannati

1.848 internati negli ospedali psichiatrici giudiziari 205 istituti di pena in Italia

Riguardo, invece, la situazione della violenza all’interno del carcere, secondo il Dipartimento  Amministrazione Penitenziaria (DAP), Ministero della Giustizia, con un aggiornamento al 24 novembre 2009, è

  • Suicidi accertati dall’autorità giudiziaria: 48

Suicidi presunti: 66

Tentati suicidi: 772

Episodi di autolesionismo: 5110

Aggressioni a Polizia Penitenziaria (con lesioni): 279

Aggressioni tra detenuti: 1705

Di questi dati allarmanti e di tante altre questioni riguardanti le carceri e i carcerati, se ne è parlato anche nell’ambito del XXIX Convegno diocesano della Caritas dal tema “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”.
La tematica centrale è il carcere con tutte le problematiche che girano attorno ad esso, le strutture che non bastano per il sovraffollamento, il recupero della persona, l’inserimento nella società del detenuto o ex detenuto e il principio di sussidiarietà per le famiglie dei carcerati. Ed è proprio il direttore della Caritas Don Gaetano Tripoto nel presentare il convegno che parla di realizzazioni di progetti attivando le proprie risorse, per collaborare con le istituzioni  interessate. Diversi gli interventi fatti all’interno del convegno per conoscere il mondo del carcere, Fra Beppe Prioli della Cappellania Carcere di Verona pone l’attenzione sul recupero della persona attraverso l’ascolto e l’assistenza sia all’interno del carcere per educare i singoli detenuti che l’assistenza delle famiglie. Altro intervento quello della Dott.ssa Elvira Iovino responsabile “Centro Astalli” di Catania sul carcere e immigrazione e quello della Dott.ssa Pina Carbone direttore dell’Ufficio  Esecuzione Penale Esterna sull’esecuzione della pena e cittadinanza. dopo un dibattito e una breve pausa un ultimo intervento fatto dal Dott. Vincenzo Di Natale, segretario generale del Polo di Eccellenza “Mario e Luigi Sturzo” della Fondazione Istituto di Promozione Umana  “Mons. Francesco Di Vincenzo”, sull’esperienza di reinserimento lavorativo per detenuti ed ex detenuti.

Un convegno dal titolo molto significativo tratto dalla pericope matteana (25,36). Inserito nel brano del Giudizio Finale, presente solo in Matteo, questa pagina evangelica racconta la venuta del Cristo glorioso alla fine dei tempi quando convocati tutti i popoli saranno divisi: a destra si troveranno coloro che verranno benedetti e a cui apparterrà il Regno eterno, perché quando Gesù ha avuto fame gli hanno dato da mangiare, sete e gli hanno dato da bere, forestiero e l’hanno ospitato, nudo e l’hanno vestito, malato e l’hanno visitato, carcerato e sono andati a trovarlo; al contrario a sinistra si troveranno coloro che saranno maledetti e bruceranno nel fuoco eterno perché non hanno dato cibo quando aveva fame, non hanno dato da bere quando aveva sete, non l’hanno ospitato quando era forestiero, non l’hanno vestito quando era nudo, non sono andati a visitarlo quando era malato e non sono andati a trovarlo quando era in carcere. L’evangelista Matteo non fa altro che sottolineare sia l’importanza ne rendere conto a Cristo di tutte le azioni fatte e non fatte, sia l’essenziale della vita cristiana che non sta solo nel dire o nel confessare Cristo a parole, ma nel praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Ogni aiuto che si presta al prossimo in una situazione di bisogno è un aiuto dato a Gesù stesso. Ciò interpella oltre a tutti coloro che si professano cristiani e sappiano che l’omissione o il rifiuto di un aiuto causa la rovina nel giudizio e conduce al castigo eterno, anche ai nostri amici atei in quanto vige la cosiddetta “regola d’oro” non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.

TESTIMONIANZE DAL CARCERE: DUE I MOMENTI PIÙ DURI, L’ESTATE E IL NATALE DIETRO LE SBARRE
“Sono due i momenti più duri della vita in carcere: il periodo di agosto e il periodo natalizio. É quando avvengono più suicidi”. A ridosso delle ferie estive, mentre tutti sono affaccendati ad organizzarsi le vacanze, nel mondo del carcere la solitudine e l’abbandono spesso diventano insostenibili. A parlarne è Angelo Marroni, garante per i diritti dei detenuti del Lazio, la prima Regione ad aver istituito nel 2004 questa figura, incompatibile con altre cariche istituzionali, per evitare marcate appartenenze politiche. Altre Regioni hanno previsto leggi ma i garanti non sono stati ancora nominati. La Sicilia ne ha uno, che però è anche consigliere regionale. Nel Lazio l’ufficio ha 20 collaboratori ed è presente in tutte le 15 istituzioni carcerarie, compreso il carcere minorile.
“E’ un lavoro dentro e fuori dal carcere, per il carcere – spiega Marroni – settimanalmente ascoltiamo i detenuti, cerchiamo di risolvere i loro problemi, e cerchiamo di offrire occasioni di lavoro e di formazione”. A distanza di 3 anni il bilancio è positivo, anche se all’inizio “è stato difficile far accettare una figura che poteva anche essere fastidiosa per alcuni, ad esempio per la magistratura di sorveglianza, la direzione del carcere ed altre istituzioni. Poi si è capito che non è qualcosa di antagonistico, ma serve a far funzionare meglio il carcere e favorire il recupero delle persone che commettono crimini. Oggi il clima è cambiato e c’è più collaborazione”.

Com’è l’estate dei detenuti?

“Sono due i momenti più duri della vita in carcere: il periodo di agosto e il periodo natalizio. E’ quando avvengono più suicidi. L’estate produce situazioni di abbandono, soprattutto dove non c’è una presenza esterna organizzata, ossia il volontariato, le cooperative sociali”.
l tasso di suicidi è infatti 10 volte più alto in carcere che fuori. “E’ un problema serio. I suicidi derivano prevalentemente dalla solitudine, dalla mancanza della famiglia, soprattutto per gli stranieri, che spesso non hanno nemmeno mediatori culturali. Il carcere minorile invece è meno esposto. In Italia dovremmo prendere esempio dal minorile per fare una legislazione migliore per gli adulti”.

“In realtà non è vero che la sicurezza dei cittadini aumenta se c’è più carcere. La. sicurezza aumenta soltanto se il carcere viene riservato a figure particolari di crimini. Per il resto dovrebbe essere la società a farsi carico del lavoro, della cultura, delle attività, soprattutto rivolte ai tossicodipendenti”.

A vivere maggiormente la solitudine sono i detenuti stranieri…
“Sono stato di recente a Rabat in Marocco per dire che non possono lasciare i loro connazionali abbandonati nelle carceri. Bisogna dare una mediazione culturale adeguata a questi detenuti, con un impegno e una presenza delle ambasciate e dei consolati. Ormai in Italia abbiamo 130 nazionalità in carcere, con difficoltà enormi di gestione, a partire da elementi banali come il cibo, la preghiera, la telefonata alle famiglia, che non si può fare senza l’interprete”.

“Gli stranieri hanno pochissime tutele, i legali d’ufficio a volte non sono interessati. Per questo, abbiamo un team di avvocati che si impegna a difendere i detenuti in modo serio e adeguato con il gratuito patrocinio, ossia pagati dallo Stato. Questo è molto importante, perché se non sei difeso il processo si risolve in pochi minuti e in modo burocratico”.

Nelle carceri italiane c’è violenza tra i detenuti soprattutto per certi crimini:
“Frequento le carceri da molti anni, e di violenza tra detenuti ne trovo pochissima. C’è soltanto un tipo di reato che non piace ai detenuti: la pedofilia. E anche la violenza sulle donne. Allora è bene che i detenuti pedofili non siano in contatto con gli altri. Rischiano anche i collaboratori di giustizia e gli appartenenti alle forze dell’ordine che hanno commesso reati. Perciò queste tre categorie, in genere, vengono tenute separate dagli altri. Piccoli abusi mi vengono segnalati soprattutto nel carcere di Viterbo. Ma il carcere oggi nel Lazio è molto più vivibile. Un tempo si diceva che la polizia penitenziaria picchiava i detenuti, oggi non più, anche perché la cultura è migliorata. I poliziotti sono giovani, hanno studiato. Il problema è che mancano i mezzi: non ci sono educatori, psicologi, tutte quelle figure intermedie che servono a fare in modo che il carcere sia utile”.

A proposito di stranieri nelle carceri, riportiamo la testimonianza di Gentian Auaj, ragazzo albanese con un sogno nel cassetto: venire in Italia, trovare un lavoro, sistemarsi ed aiutare i suoi familiari.

Poi… il fallimento di un progetto migratorio pieno di illusioni, il carcere, gli affetti che per uno straniero cessano di esistere
“Quanto decisi di lasciare la mia famiglia in Albania per venire in Italia, avevo le idee chiare e tanto entusiasmo, era quello il mio piccolo bagaglio. Una realtà piena di tanti desideri e molti sogni. Non pesavano niente ed erano facili da trasportare, stavano tutti nella mia testa: un lavoro, sistemarmi in Italia, aiutare in seguito i miei familiari, erano questi i miei sogni.

Ho lasciato la dolcezza di mia madre, sempre premurosa con me, l’unico figlio, amato alla follia da una donna che ha sempre lavorato onestamente per non farmi mancare mai nulla, e l’ho lasciata per un sogno, per un futuro incerto.

Solo ora comprendo quanto siano importanti gli affetti dei miei familiari. Ora capisco perché sono stati necessari quei rimproveri che mia madre, arrabbiandosi, ogni giorno mi faceva. Ho nostalgia di quando mi ripeteva: “Ma come te lo devo dire che prima di pensare a giocare a pallone devi pensare allo studio?”.
Io giocavo a calcio in una squadra della mia città, Kavaja al centro dell’Albania e appena potevo, anche per strada, con gli amici del quartiere organizzavamo partitelle cinque contro cinque. Si giocava spesso fino a tarda sera. Mia madre, anche se era felice di vedermi così spensierato, voleva per me un futuro migliore. Erano i miei nonni che badavano a me quando lei andava a lavorare in una fabbrica di dolciumi. Da quel punto di vista ero viziato. Mia madre ogni giorno portava a casa torte e biscotti di tutti i tipi, che in quel tempo in Albania erano considerati un vero lusso.

Il mio secondo padre, un uomo dal carattere burbero e autoritario, aveva sempre l’ultima parola quando chiedevo di andare con i miei amici a giocare. Con fatica, alla fine comunque l’avevo sempre vinta io. Riuscivo a fare tutto quello che volevo, anche se sapevo che avrei poi preso un po’ di ceffoni.

Per me partire, venire in Italia era molto difficile. Avevo poco più di 18 anni, ma devo dire che poi mia madre, a malincuore naturalmente, mi ha incoraggiato in questo mio desiderio, per il mio bene, con la speranza che io potessi avere un futuro libero e fortunato.

Tante sere alla televisione riuscivo a vedere i canali italiani, le partite di calcio del campionato di serie A e quelle dei mondiali. Nei telegiornali e in alcuni programmi vedevo la vita felice che si svolgeva nelle grandi città italiane.
Spettacolo e shopping, vetrine illuminate e tanta bella gente felice, tanto sport e tanta democrazia, quella che al nostro popolo mancava. Tutto questo mi rendeva curioso di provare a raggiungere questo paese così ordinato. E poi mi attirava quello che sentivo dire da altri miei connazionali che vivevano già in Italia, lavoravano onestamente, avevano automobili nuove ed erano ben vestiti, avevano la loro casa, anche se l’affitto era considerato molto caro.

Arrivai in Italia nel ’92 su un gommone, ed ho trovato moltissime difficoltà, perché non avevo nessuno che mi poteva aiutare, ho rivisto tante persone che conoscevo in Albania, ma nessuno di loro mi ha chiesto se avevo bisogno d’aiuto. In Albania eravamo tutti uniti, non c’era differenza tra di noi, ma qui in Italia quasi fingevano di non conoscerti.

Allora capii che in Italia  dovevo arrangiare da solo. Ognuno pensava per se stesso. Ho lavorato per due anni in una ditta di calzature nel bresciano, prendevo un milione e duecentomila al mese. Ma se per un italiano ad esempio l’affitto di due camere era di cinque –seicentomila lire, per noi stranieri spesso era il doppio, il triplo, e dovevi dire grazie quando riuscivi a trovare un alloggio, qualsiasi fossero le sue condizioni e il suo prezzo. Ebbi alcune difficoltà. Da quel momento quella che doveva essere un’avventura si è trasformata in una disavventura, in un disastro, ed oggi mi trovo qui a raccontare da dentro un carcere.

La vita in Italia, il carcere, la lontananza, la perdita degli affetti
l fatto è che, arrivando in un paese di cui non conosci le leggi, né la lingua, gli usi e le abitudini, ti ritrovi facilmente in balia di quelle istituzioni che, dal tuo punto di vista, hanno prassi e criteri di valutazione “misteriosi”. Per fare qualsiasi cosa ci vogliono permessi, certificati, carte sopra carte… quando tu al tuo paese eri abituato a farla e basta. Così le speranze e le illusioni, che ti hanno dato la forza di sopportare le difficoltà iniziali, naufragano presto in un mare di difficoltà.

 

A questo punto, spinto da necessità “vitali” non più rinviabili, provi a prendere qualche “scorciatoia”, con la convinzione di poterla usare solo per il tempo strettamente necessario. Poi, pian piano, ti accorgi che quando hai molti soldi la gente ti tratta diversamente, con rispetto e gentilezza, mentre non ti rendi affatto conto dei rischi ai quali ti esponi per averli.

Cominci a fare una vita molto migliore, rispetto a quella che hai lasciato nel tuo paese… finché arriva lo “stop”, improvviso, che ti fa perdere di colpo tutto quello che avevi raggiunto: spesso è proprio la mancanza di un corretto “orientamento” nella società italiana che ti porta a fare gli errori più grossi.

I soldi, che tu lì abbia guadagnati in modo legale o in modo illegale, se ne vanno con le parcelle degli avvocati e nelle necessità personali di mantenimento in carcere; inoltre ti trovi a dover superare un vero blocco emotivo, per riuscire a dare la brutta notizia dell’arresto ai familiari.

Questa notizia orribile da comunicare ha portato tanta sofferenza a me, ed alla mia famiglia, che si è meravigliata quando ha saputo che mi trovavo in carcere. Quello che mi manca di più oggi é quell’incitamento, e quell’affetto che mia madre mi dava ogni giorno.

La vita e il successo “di facciata”, che mi ero costruito, sono caduti di colpo, e così mi sono trovato costretto a chiedere aiuto materiale e sostegno affettivo alla mia famiglia, e non è stato facile.

Ora servirebbero almeno visti d’ingresso facilitati per i familiari residenti all’estero, per consentire ogni tanto dei colloqui. Ma venirmi a trovare costa tantissimo e i miei non se lo possono permettere. Inoltre il consolato difficilmente concede un visto per motivi legati alla visita di un familiare detenuto. Lo scandalo dei visti venduti a caro prezzo, successo in Albania, penso che lo ricordino tutti, immaginarsi se qualcuno lì si preoccupa dei visti per i parenti di una persona in carcere.

I rapporti affettivi rappresentano uno degli elementi più importanti nella vita di ogni persona. Purtroppo, con l’ingresso in carcere, avvenimento già traumatico di per sé, questi vengono bruscamente interrotti. Dopo i primi mesi di carcere, vissuti nell’illusione che il problema si risolva in fretta, le sentenze diventano definitive e ti trovi di fronte ad una pesante realtà. Di solito, dopo un paio d’anni di detenzione, i rapporti affettivi si allentano fino a rompersi del tutto. Del resto non si possono costringere le mogli, le fidanzate e i figli a subire le inevitabili ricadute dei guai nei quali ti sei cacciato, e tanto meno si può farlo se i tuoi parenti hanno già per conto loro una vita dura e senza grandi aspettative…”

 

In conclusione possiamo affermare che la realtà del carcere è una realtà che interessa credenti e no, in quanto tutti siamo chiamati in causa dal momento che siamo tutti esseri con capacità di amare e prestare aiuto a chi ha bisogno! Ricordiamoci quindi che tutti possiamo trovarci dentro le mura del carcere a causa della fragilità umana e avere dunque bisogno di essere ascoltati, assistiti ma soprattutto AMATI!

 

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