EX SILOS GRANAI. IMBUTO DI MORTE

Messina, ex silos Granari. Tra la via Paolo Savoca e la via Alessio Valore, si affaccia sul mare l’edificio un tempo adibito al deposito e smistamento delle graminacee. Ennesimo esempio di incuria, inadempienza, inciviltà e lassismo.

Maestoso ed imponente, questo gigante di cemento conserva le tracce di un passato attivo e produttivo, nascoste nell’immondizia e nel liquame. Cadavere in decomposizione, unisce il proprio silenzio a quello dei tanti altri edifici messinesi di proprietà del Comune, abbandonati in attesa di riqualificazione. Una storia fatta di aste, gare d’appalto, vendite poi annullate e svalutazioni. Del 2011 il primo cartello ‘vendesi’, con lo scopo di riqualificare l’intera area della dogana. Valore stimato, 13 milioni di euro, ma nulla di fatto. Nel 2013 si torna a parlare di vendita, di piano di dismissione degli immobili per riuscire ‘a fare cassa’. Dai 13 milioni di partenza si arriverà a 8 milioni 560 mila euro. Una svalutazione incrementata dall’incuria e dal totale abbandono della struttura, sempre meno allettante. Sempre nel 2013 si tornerà a parlare dell’edificio, protagonista di una singolare quanto unica operazione del nucleo decoro della polizia municipale, la cui azione si limiterà allo sgombero dell’edificio da due occupanti abusivi. Si dovrà attendere l’aprile 2014 per l’eliminazione della struttura dall’Elenco/Prospetto degli immobili destinati alla vendita. La nuova destinazione però, tutt’oggi non si conosce.

Ciò che si conosce bene è invece ciò che si offre alla vista di chi arriva dal mare, o dalla stazione. Ciò che si conosce è la paura di cosa potrebbe venir fuori dall’interno di un inferno in pieno centro. Uno scenario da periferia allo sbaraglio, a pochi passi dal mare, dal centro storico. Si può solo immaginare ciò che potrebbe rappresentare un edificio dalla posizione tanto strategica. Ma l’immaginazione non basta, e il gigante resta lì, abbandonato, rifiutato, dimenticato.

Migliaia di messinesi, tutti i giorni, passano davanti a questo incubo di ferro e cemento, senza immaginare cosa possa nascondere quello che, a tutti gli effetti, può considerarsi un museo degli orrori. Come in una rappresentazione dantesca, conserva al proprio interno realtà agghiaccianti. In una scala che porta dalla selva oscura al paradiso, si sviluppano osservazioni inquietanti, fino alla commovente visione di una città dalle piaghe sempre aperte.

Siamo alle spalle di piazza Cavallotti. Alla nostra sinistra dirompe lo stretto con il suo azzurro indescrivibile. Di fronte a noi, un cancello di ferro dalle sbarre segate. Per entrare ci si deve piegare sulle ginocchia, sperando di non ferirsi con i ferri arrugginiti. La vista di una cassetta della posta piena di fogli fa sorridere, ma in modo amaro, quasi colpevole. Ci addentriamo in una selva oscura dal suolo ricoperto di liquame e immondizia ormai indistinguibile. Qualche raggio di sole penetra dalla tettoia spaccata, per poi sfogare la sua luce su un cortile di copertoni e auto abbandonate. Qui, in questo limbo malinconico, le auto della polizia municipale e dei rangers d’Italia sono ricovero notturno di quanti non si addentrano nel buio. I sedili calati, i cartoni di vino a basso costo e le bottiglie di birra non testimoniano serate di baldoria. Tutt’altro. In terra, delle bambole sporche di fango, ad aumentare il senso di inspiegabile abbandono.  Sotto i piedi scricchiolano i vetri, ci avviciniamo alla porta dell’inferno. Dentro è buio, troppo buio, ma è meglio così. Lo spettacolo è insostenibile, ma è ben preannunciato dall’odore. Il fazzoletto premuto sulla bocca non serve a nulla. La puzza di morte è dappertutto, entra ovunque e non va via. La luce artificiale rivela uno scenario che rende onore al fetore, misto di putrefazione e acido. Montagne e montagne di immondizia, liquame e fango. Non si riesce a distinguere cosa si guarda, tutto è mescolato, impregnato. L’odore non abbandona neanche le scale, anch’esse buie, anch’esse terrificanti. Per 5 piani, dai silos ancora parzialmente pieni di resti di cereali cola una melma dall’odore insostenibile. Un liquame misto di percolato e carcasse di animali rimasti intrappolati dentro queste tombe di ferro e lamiera. Ogni tanto una finestra regala un po’ di riposo all’obbligata apnea. Arriviamo ai piani ‘abitati’. Purgatorio di stanze arrangiate con brande e letti di cartone. Un’arancia fresca su un materasso dà l’impressione di luoghi vissuti, ma la ragione non può concepire tanto. Altre stanze occupate da sola immondizia rievocano l’olezzo dei piani inferiori. Dai buchi nelle porte spiamo le testimonianze di vite ridotte allo stato inumano, e ci accorgiamo che in un letto c’è qualcuno che dorme… Risaliamo in silenzio questo purgatorio senza redenzione per raggiungere il sole. Viene in mente il celebre ‘uscimmo a riveder le stelle’. Davanti a noi la Madonna della lettera saluta la sua Messina, la ‘protegge’. I polmoni possono nuovamente ricevere aria pulita. Gli occhi possono di nuovo godere della bellezza. La mente, non può dimenticare.

Un imbuto di morte e decomposizione. Una tomba senza lapide.

Non si parla di offesa al decoro pubblico. Non si parla del tanto inflazionato spreco di risorse. Si parla di pericolo, anzi, di pericoli. Il quantitativo di immondizia e di materiale in decomposizione è tale da attirare un numero impressionante di topi, sorci e insetti, veicolo di malattie e infezioni. E non solo. Le persone che ‘occupano’ l’inferno di cemento vivono, dormono, respirano, mangiano lì dentro, per poi camminare per strada. Considerando l’elenco infinito delle malattie e delle infezioni causate dalla sporcizia, le conclusioni cui si può arrivare sono agghiaccianti. Ma la pericolosità della struttura non si ferma al rischio infezioni. Si parla di rischio di morte. Per tutti e 5 i piani la struttura si affaccia su un enorme pozzo di circa 3 metri per lato, privo di qualsiasi recinzione. Non è difficile pensare a cosa possa succedere a qualsiasi ‘occupante’ che, ubriaco e completamente al buio, salga quelle scale prive di protezioni, a pochi passi dal vuoto. Non è da visionari immaginare che, tra quelle colline di rifiuti e spazzatura, possano trovarsi anche cadaveri.

Uscendo ripercorriamo velocemente questo incubo a ritroso. Incredibile tornare a respirare e rendersi conto di essere in strada, a due passi dal centro. Incredibile l’invisibilità di un pericolo tanto grande.

Ma lui resta lì. Un elemento che passa inspiegabilmente inosservato. Sconosciuto ai più e dimenticato da chi, ormai, non lo nota neanche. Un’enorme pozzo che macera scarti di vita.

Stupisce come ci si possa assuefare alla presenza di edifici invisibili, dalla pericolosità così sconvolgente.

E quindi uscimmo, a riveder le stelle.

Gaia Stella Trischitta