Documentare come in Sicilia, negli anni ‘60, venisse percepito dal mondo giornalistico quello che non era ancora conosciuto come “femminicidio” e mettere a confronto questa percezione con la sensibilità di oggi. Questo l’obiettivo che la giovane taorminese Benedetta Intelisano ha voluto perseguire nella sua tesi di laurea. Un lavoro tanto complesso quanto originale, perfettamente in linea con il corso di laurea in Scienze e lingue per la comunicazione. Non una semplice tesi compilativa dunque, ma un misto di analisi della comunicazione e saggio di sociologia, dal quale emerge un vero parallelismo tra la società delle apparenze della Sicilia degli anni ’60 e la società di oggi in cui apparire è tutto. Un lavoro, quello della neolaureata e neogiornalista Benedetta Intelisano, dedicato a quelle sfumature dell’espressione giornalistica che fanno la differenza, allora come oggi.
Da dove parta e come si sviluppi l’interesse della ricerca, lo spiega bene lei stessa tra le pagine: “L’idea di partenza nasce da un sentire comune secondo cui ancora oggi taluni giornalisti tendono a dare descrizione dei fatti di femminicidio utilizzando un linguaggio tendenzioso, figlio dell’epoca in cui il cosiddetto “delitto d’onore” era per legge ancora un’attenuante”.
Noi de ilcarrettinonews.it, da sempre interessati alle questioni di genere, al fenomeno discriminatorio e alla sociologia della comunicazione in generale, abbiamo intervistato la collega Intelisano per conoscere sì la dott.ssa, ma anche la giornalista e la donna Benedetta.
Il femminicidio è argomento drammaticamente attuale. Il vedere il problema sotto il punto di vista giornalistico però, soprattutto relativamente a un periodo in cui ancora si tollerava il delitto d’onore, è ben altra cosa. Da dove viene l’idea di sviluppare una tesi che tratti il tema in modo così specifico?
Giornalismo e violenza sulle donne sono oggetto dei miei studi e dei miei interessi sin da piccolissima. Scrivere una tesi era la mia occasione per mettere insieme le due cose. Ero alla ricerca di un taglio che potesse risultare quanto più interessante possibile e ho avuto l’occasione di partecipare a un convegno sul giornalismo in cui è stato toccato l’argomento delle discriminazioni di genere. In quella circostanza il tema affrontato fu quello relativo a delle espressioni molto forti che talvolta vengono usate dai giornalisti per parlare delle donne e delle vittime di violenza nello specifico. Frasi come ‘sesso debole’ e ‘gentil sesso’ oppure come ‘delitto passionale’ e ‘amore malato’. Lì se ne parlò principalmente come di un linguaggio discriminatorio che sminuisce la donna e svilisce la gravità di un femminicidio. Fu come un’illuminazione: ho riflettuto sul fatto che spesso avevo sentito dire che questo genere di linguaggio fosse collegato al “delitto d’onore”, ma in che senso? Che tipo di collegamento c’era? Ho pensato che per capirlo avrei dovuto analizzare come venissero raccontati i femminicidi quando ancora questa parola nemmeno esisteva e da lì è iniziato tutto.
Si suppone che la bibliografia in merito non sia molto ricca di titoli. Che metodo di ricerca hai adoperato?
La mia fonte primaria è stata l’Archivio storico digitale del quotidiano “La Sicilia”, cui ho avuto libero accesso grazie al mio Relatore, il Professore e Giornalista Giuseppe Di Fazio. Ho avuto così la possibilità di andare a scavare in tutti i fatti di cronaca che hanno segnato la nostra Sicilia e in questo modo di poter fare una selezione che mi ha permesso via via di restringere il campo della mia ricerca. Una volta individuati i casi da analizzare, ho effettuato una schedatura per ogni articolo e sulla base di questa ho fatto l’analisi del linguaggio. Una seconda fonte importantissima è stato il saggio del Dott. Ernesto De Cristofaro, “Retorica forense e valori della comunità. Questioni d’onore in alcuni processi siciliani”. Ho avuto modo di confrontarmi personalmente con lui e le informazioni che mi ha dato sono state davvero illuminanti.
Nella tesi tratti due casi ben isolati, avvenuti entrambi in Sicilia prima del 1981. Perché proprio quei due fatti di cronaca?
Il tema della mia ricerca è di respiro veramente molto ampio. Fare un’analisi a tuttotondo del linguaggio giornalistico utilizzato per la narrazione dei femminicidi, sebbene fosse nelle mie intenzioni, non era possibile all’interno di un elaborato di laurea triennale. Per questo si è pensato di circoscrivere l’analisi. I due casi scelti, il Delitto di Niscemi del 1965 e il Delitto di Piazza Armerina del 1968, corrispondevano ai criteri di selezione: si è deciso che oggetto dell’analisi fossero femminicidi avvenuti in un periodo in cui ancora le disposizioni sul movente d’onore come attenuante all’omicidio fossero ancora in piena attuabilità, che fossero casi conclusi, che fossero avvenuti in Sicilia e che avessero avuto una forte eco mediatica protrattasi anche per alcuni anni.
Le donne assassinate in quegli anni ricevevano giudizi negativi anche dalla stampa, come se il principio di imparzialità fosse ancora lontano dalla pratica giornalistica. Da donna, ma soprattutto da giornalista, secondo te ad oggi si può parlare di correttezza e imparzialità dei media?
L’esito della mia ricerca, devo dire, ha dato risultati inaspettati. Se è vero che in alcuni articoli, come il primo emblematico sull’uxoricidio di Niscemi, il linguaggio usato per descrivere la donna uccisa è molto allusivo e il movente dell’omicidio è descritto come se l’azione del marito fosse giustificabile, è anche vero che la maggior parte degli articoli successivi riportano gli sviluppi sui fatti in modo, invece, molto imparziale e distaccato. Ciò che emerge, dunque è che nel linguaggio giornalistico di quegli anni è sì presente una componente culturale maschilista e patriarcale che influenza, ma allo stesso tempo rappresenta, il giudizio del lettore, ma ciò, perlomeno da quello che emerge dal confronto dei due casi, non è la costante e inoltre è il frutto di più fattori, non soltanto della scelta del giornalista.
Io credo che oggi, come allora, il giornalista abbia una grande responsabilità nei confronti del lettore, e ciò sia nel parlare di violenza sulle donne che di qualsiasi altra cosa. Ma penso anche che oggi per fortuna, e sicuramente più di allora, ci sia una maggiore attenzione da parte dei professionisti dell’informazione nella scelta linguistica delle proprie produzioni.
Le Donne dei due casi erano descritte non come vittime, ma come protagoniste di vite ‘sbagliate’. In questi giorni la Cassazione ha eliminato l’aggravante per lo stupro se la vittima era ubriaca al momento del misfatto. Non credi che si stia percorrendo una strada all’indietro?
Sulla questione penso sia stata creata, temo volutamente, molta confusione. Non ho né le competenze né le conoscenze per analizzare una sentenza della Cassazione, ma i titoli sensazionalisti sulla vicenda credo siano già un campanello di allarme sulla veridicità, perlomeno parziale, della notizia. I miei studi per la stesura di questo elaborato mi hanno fatto comprendere che stiamo vivendo nel pieno di un cambiamento culturale: non dobbiamo dimenticare che il 1981, l’anno in cui è stata tolta dal nostro Codice penale l’attenuante per il movente d’onore, era praticamente l’altro ieri. I cambiamenti avvengono lentamente e hanno la caratteristica di trascinarsi per lungo tempo cose del passato; tuttavia hanno anche la caratteristica di avvicinarsi sempre più a qualcosa di diverso, non necessariamente migliore o peggiore, ma comunque diverso, e certamente nel futuro.
Sei donna, giornalista e giovanissima. Sei cresciuta nell’epoca di facebook e dei social. Migliaia di ragazzine che usano queste piattaforme per ostentare una femminilità che risulta spesso un’arma a doppio taglio. Espressioni come “se l’è cercata” ritornano drammaticamente se queste donne-bambine vengono coinvolte in atti di abuso. Da studiosa della comunicazione, come credi che potrebbe arginarsi il problema?
La mia soluzione, banalmente, sono i libri. Il mio rispetto per me stessa e per il mio essere donna me lo ha regalato mia madre trasmettendomi la passione per la lettura. I libri mi hanno resa libera di farmi un’opinione, libera di pensare e di avere il desiderio di dire la mia, ma soprattutto desiderosa di difendere me e di difendere chi non sa farlo. Ciò vale per tutti: non soltanto per le vittime, non soltanto per chi usa la violenza, ma anche per gli spettatori, per coloro che da casa si indignano e prendono posizione su una gonna “troppo” corta. Credo che i libri ti diano la capacità di guardare all’essenza delle cose.
GS Trischitta