Ferite curabili di cartapesta

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Fra i resti di glorie antiche, dove anche i più insospettabili anfratti celano il fascino di giorni ormai dimenticati, Napoli custodisce un frammento di incantevole passato.

Nel cuore del capoluogo, in Via San Biagio dei Librai, ecco un Paese dei Balocchi feriti: si tratta dell’Ospedale delle Bambole, fondato più di un secolo fa dall’intraprendente Luigi Grassi. L’uomo, un artigiano solerte e pieno di risorse, ha dato vita ad un piccolo angolo di storia, dove anche ai sogni infranti è concessa una seconda possibilità.

Dopo oltre cent’anni, la singolarissima clinica è ancora in funzione: Tiziana Grassi, attuale proprietaria e pronipote di Luigi, si dedica quotidianamente alla riparazione di bambole, giocattoli antichi, pupazzi malridotti. Del tutto dedita al suo lavoro, Tiziana è decisa a non rinunciare alla sua piccola e insostituibile bottega. Una lunga chiacchierata ci ha consentito di entrare in punta di piedi nel suo mondo fatato, sospeso fra ricordi d’infanzia ed fervide attese. È proprio lei a raccontarci le gioie e i dolori di una piccola imprenditrice, determinata a non gettare la spugna.

 

Impossibile non chiederlo: come nasce tutto questo?

“Se l’Ospedale esiste è per merito di Luigi, il mio bisnonno. Si guadagnava da vivere riparando marionette ed altri oggetti di scena, proprio in questo piccolo negozietto. Un giorno bussò alla sua porta una madre speranzosa: implorò Luigi di aggiustare la bambola rotta che aveva con sé e lui non seppe dirgli di no. Ebbene, il restauro riuscì perfettamente: a quella bambola era stata regalata una nuova vita. Per la bimba che la ricevette in dono non era affatto un oggetto riparato, non più: era una compagna di giochi finalmente guarita. Da quel momento in poi il laboratorio del mio bisnonno cambiò, prese il nome di “Ospedale delle Bambole”. Grandi e piccini accorrevano da ogni parte di Napoli, nella speranza che anche per loro accadesse la magia.

Alla morte di Luigi l’eredità passò al figlio Michele, mio nonno. Dopo di lui l’attività venne portata avanti da mio padre e adesso è arrivato il mio turno, già da un po’.”

 

La vostra piccola azienda è sopravvissuta a guerre, crisi economiche e persino alla politica industriale. Qual è allora la ricetta magica?

“Siamo ancora in vita perché nonostante tutto c’è chi conserva, ama, vive appieno i giocattoli. La ricetta è proprio l’amore, è da questo che dipende il nostro successo. Per chi è disposto a spendere tempo e denaro pur di vedere la sua bambola messa a nuovo, tentiamo di fare il possibile e anche l’impossibile. È difficile da credere, ma c’è gente che non smette di attribuire valore a ciò a cui in passato era legato. È proprio questa la nostra forza.”

 

Riparare bambole di porcellana e cartapesta è il vostro mestiere da più di un secolo ormai, ma come ve la cavate con i giocattoli moderni? C’è qualche speranza anche per loro?

“Niente affatto. Quella è spazzatura, ripararla è difficilissimo ed è anche una perdita di tempo. Sono tutti uguali, senza personalità. Le bambole di pezza, di stoffa erano splendide anche perché erano uniche al mondo. E ci si poteva giocare, le si poteva sporcare senza problemi: non erano da collezione, certo, ma ci si divertiva parecchio. Niente abiti succinti per loro, né vagiti artificiali: era compito dei bambini immaginare che piangessero, mangiassero e camminassero. Era tutto più magico.”

 

Su questo Tiziana non transige. È nemica giurata del consumismo, dell’accumulo spasmodico di oggetti superflui. Per lei scatole in plastica, fili di nylon e nastro adesivo in quantità non sono altro che inutili diavolerie utilizzate per imballare pezzi di gomma prodotti in serie. Se si rompono, tanto meglio.

 

Fra le vostre numerosissime iniziative figura persino l’acquisto di bambole e peluche usati da “adottare”. In un mondo votato al consumismo c’è ancora spazio per bambolotti malconci e orsacchiotti spelacchiati?

“Purtroppo la mia proposta non ha riscosso molto successo.  L’iniziativa è nata principalmente per le bambine di ieri, ormai donne. Di certo non giocano più con le loro bambole, ma questo non significa che debbano restare confinate in uno sgabuzzino polveroso o, ancor peggio, finire in un cassonetto. Ho dato loro l’opportunità di affidarle al nostro piccolo “orfanotrofio”, in modo che altri bimbi potessero occuparsene. Non sta andando molto bene però, pazienza.

Oggi queste cose non interessano più, è vero. A noi però piace credere che qualcuno si possa innamorare anche dei giochi dimenticati, quelli che a qualcuno non servono più. Abbiamo il nostro piccolo microcosmo fatto di sogni e sinora va bene così.”

 

Nostalgici e curiosi affollano quotidianamente il vostro ospedale, ma che dire dei bambini? Le bambole li incuriosiscono ancora?

“Beh, loro stanno al gioco. Durante le visite alla nostra struttura c’è la possibilità di ritagliarsi un libero spazio gioco: per un po’ i bimbi indossano camici, guanti, stetoscopi e fingono di curare i loro bambolotti. La loro creatività è sorprendente: dimenticano il mondo reale e si tuffano in quello fantastico con estrema facilità.”

 

Non soltanto antiquariato: da voi è possibile acquistare anche giocattoli moderni, bambole in plastica, accessoriate e con abiti alla moda. Come conciliare tutto ciò con lo spirito della vostra “clinica dei sogni”?

“Noi non demonizziamo affatto la modernità. Non è l’avvento di giocattoli diversi che non ci va giù. Il punto è la mentalità dell’usa e getta: i bambini di oggi sono pieni di giochi, peluche, pupazzi di ogni genere che cestinano dopo pochi mesi, se non giorni. Fanno i capricci, pestano i piedi, li pretendono ad ogni costo, ma il risultato è che non si affezionano, non imparano ad apprezzare ciò che hanno per le mani. Ci adeguiamo al presente, ma con un pizzico di buon senso.”

 

Come insegnare allora ai bimbi del 2000 a prendersi cura dei loro giochi?

“Innanzitutto bisogna regalargliene pochi. Possedere troppe cose è un po’ come non possederne affatto, almeno da questo punto di vista.

Io ho tre figli e ad ognuno di loro ho regalato un pupazzetto. Sin dai primi giorni di vita sono stati abituati ad averlo con sé in ogni momento. Oggi naturalmente non ci giocano più, ma sono rimasti molto affezionati a questo piccolo ricordo d’infanzia, gli danno importanza, gli riconoscono un valore.

Inoltre sarebbe meglio scegliere dei giochi creativi, che li possano appassionare e stimolare. Se i bambini non vengono incuriositi realmente, finiscono per ripiegare sui videogiochi.”

 

Cosa vi augurate per il futuro? Ci sono nuovi progetti in cantiere?

Al momento l’unico vero progetto è tentare di non affondare, fare in modo che la nostra storica bottega continui a sopravvivere. Non è facile per noi, niente affatto, ma voglio essere positiva.

Investiremo tutte le energie di cui disponiamo affinché la nostra attività vada per il meglio, non ci risparmieremo. Allo stato attuale e su questo che si deve lavorare.”

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