Due amiche davanti ad un the: «Negozi sempre aperti, ci pensi?» . «24h su 24h saranno disponibili tutte le cose che non possiamo più permetterci!» . É il contenuto di una vignetta che è girata sui social network dopo la decisione del governo Monti di liberalizzare le aperture nel commercio.
Una vignetta che ci ha fatto sorridere, ma che racconta con estrema semplicità e con nuda realtà quanto sia mistificante l’assioma che liberalizzare – a prescindere da cosa e come – produca crescita e dunque ricchezza.
Viviamo in un paese dove il 10% della popolazione possiede il 50% della ricchezza, un paese dove il 50% della popolazione possiede meno del 10% della ricchezza, mentre si parla di spread tra Bund e Btp e dei mercati finanziari, continua ad aumentare lo “spread” tra prezzi e redditi disponibili e i consumi nel mercato dell’economia reale sono mortificati da una sempre più esigua capacità di spesa.
É da un po’ che si va verso la liberalizzazione degli orari commerciali, in Italia e in Europa, con processi più o meno avanzati. Ovunque è stata attuata, si è registrato un peggioramento delle condizioni di lavoro,un aumento della quantità di contratti a termine e part-time, un uso illegittimo di collaborazioni autonome o parasubordinate che mascherano lavoro dipendente, turni mutevoli e spesso spezzati, una conciliazione dei tempi di vita e di lavoro difficilissima da gestire e la cancellazione delle domeniche e delle festività dal calendario delle commesse e dei commessi.
Inoltre, la liberalizzazione ha prodotto, laddove è stata realizzata, la crisi della piccola distribuzione e la chiusura di molti piccoli esercizi che sono stati strozzati dalla morsa della concorrenza dei grandi centri commerciali. In altre parole, ha prodotto disoccupazione di proprietari e dipendenti.
Tutto questo ci dà la cifra di una politica schizofrenica che promuove la crescita dell’economia attraverso l’impoverimento e la precarizzazione della società. Tutto questo ci parla di una competizione selvaggia che scarica i suoi costi sulla pelle dei lavoratori. Nel frattempo continua l’attacco al sindacato e alla sua legittimità, soffocato nell’angusto campo della resistenza e della difesa dell’esistente, e si continua a deprimire e mortificare la sua capacità d’intervento e regolamentazione.
Tuttavia, un potere continuiamo ad averlo e possiamo agirlo, non solo in Italia ma anche in Europa.
Esiste una direttiva europea sui tempi di lavoro che in questo momento è in fase di revisione. Le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori a livello europeo hanno da poco cominciato un percorso di negoziazione che li porterà all’inizio di Settembre 2012 ad un accordo. Quell’accordo sarà consegnato alla Commissione europea e in forza dell’Articolo 155 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea sarà implementato da una decisione del Consiglio. Le decisioni del Consiglio hanno potere vincolante e sono direttamente applicabili. Essendo la normativa comunitaria di ordine gerarchico superiore alle leggi ordinarie, in caso di conflitto, le norme nazionali sono disapplicate e dichiarate illegittime.
Allora noi in quel processo dobbiamo starci. Dobbiamo starci insieme ai sindacati del commercio degli altri paesi e insieme a Uni Europa Commerce, la federazione europea dei sindacati del commercio a cui siamo affiliati.
Contrastare l’attacco ai diritti e alle tutele dei lavoratori è un obbligo per noi. Per farlo abbiamo due campi complementari: l’Italia e l’Europa. Impegnarsi a costruire un fronte comune transnazionale e sovranazionale in grado di fare massa critica su chi assume le decisioni è l’unico modo per reggere l’urto di processi di deregolamentazione e delocalizzazione che avvengono a livelli e frequenze nettamente superiori a noi. L’Europa, l’altra Europa, è la nostra via d’uscita contro la barbarie.
La battaglia è già cominciata e il prossimo appuntamento è il 4 marzo con la Giornata Europea per le Domeniche libere dal Lavoro promossa dallo European Sunday Alliance.
Se il lavoro è la cartina di tornasole di una civiltà, non esiste civiltà democratica senza diritti e tutele per le lavoratrici e i lavoratori.