La caduta di stile di una delle penne più importanti del giornalismo italiano: a suo modo di vedere pezzi archeologici come la Venere di Morgantina dovrebbero essere delocalizzati per far cassa. E guai a mettere ex detenuti a lavorare nei musei…
Nella piazza che invita ad entrare nella bellissima chiesa di sant’Eustachio, a Parigi, appena dopo la decadente magia commerciale del Forum Les Halles, ci sta una grande testa di pietra che chiede di far silenzio per poter ascoltare, accostando un’enorme mano granitica all’orecchio. All’abate Dinouart sarebbe piaciuta. A sant’Eustachio l’abate non rimase moltissimo, ma la sua presenza lì ebbe un significato gigantesco, più grande di quella testa, che comunque fa la sua bella impressione. È una magnifica summa delle sue idee più note.
Sì perché essersi trovati in quella chiesa ed aver scritto un trattato breve dal titolo “L’arte di tacere” non è una cosa che passa inosservata. “È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio” scrisse nel 1771 Joseph Antoine Toussaint Dinouart, e l’eco di quest’incipit a quel libello è diventata infinita, trovando pubblicazione negli anni con una continuità meravigliosamente lunga. Qualche giorno fa una giovane laureanda della Bocconi la sciorinava nel discorso che coronava la sua lode. Perché è una frase che ti porti appresso nel tuo bagaglio culturale. Ce l’hanno in molti. Certamente ce l’ha anche Gian Antonio Stella, che magari negli anni scrivendo i suoi libri di successo avrà utilizzato la logica dell’eloquente silenzio messa in piedi da quell’uomo al servizio di Dio che seppe farsi apprezzare nel servire le lettere. E allora perché, Gian Antonio?
È una domanda complicatissima in quanto la risposta, di certo, sarebbe cervellotica. Nonostante la banalità della questione.
Gian Antonio Stella, giornalista di punta del più prestigioso quotidiano italiano, trovandosi a Messina a discutere di beni culturali di fronte ad una platea interessata è stato oggetto della più classica delle cadute di stile. Ma non s’è fatto male. Quando sai scrivere come lui, quando sei in grado di raccontare complicati meccanismi di malaffare vestendoli come pochi sanno fare, allora non ti fai male. Ma l’eco della caduta arriva lontano. È un contrappasso brillante, e bisogna accettarlo. Tanto quanto non è possibile accettare le sue parole. «I veneti – sottolineava Gian Antonio in un fiume di considerazioni – devono riconoscere che hanno devastato la loro campagna, non possono offendersi se gli dici che han distrutto la campagna veneta, e i siciliani non si devono offendere se gli si dice che è una cazzata tenere a una distanza di trecento chilometri la Venere di Morgantina e il Satiro danzante». No, per i siciliani non c’è da offendersi. Semplicemente non bisogna neanche tenere in considerazione un’idea del genere. Appunto per questo il silenzio sarebbe stato migliore.
Ora: è bene precisare che Stella non si è presentato al pubblico solo per formulare quest’ipotesi senza senso. In realtà si è trattato del coronamento di un ragionamento fondato. Partito da lontano nell’istruire il suo uditorio siculo, infatti, aveva tutte le ragioni per giungere alla soglia di una soluzione: ha analizzato lo stato di salute di un paese che si vanta dei suoi beni culturali ma che al contempo ne tiene molti in condizioni pessime, divorati dalle erbacce, decadenti, sotterrati dalla polvere, ignorati dai passanti. E ha evidenziato come in quest’Italia postberlusconiana non ci sia una liquidità tale da poter mantenere decine di musei in buone condizioni, considerando che magari si trovano a brevi distanze l’uno dall’altro. Tutto giusto. La soluzione proposta per migliorare questo paludoso orizzonte culturale, però, è stata disastrosa. «Parliamoci chiaro – ha detto armandosi di sincerità – se io parto da qua adesso per andare a vedere il Satiro danzante mi devo fare quattro-cinque ore di macchina; e se voglio anche andare a vedere la Venere di Morgantina mi devo andare a infognare e fare diecimila tornanti per arrivare ad Aidone… Che è carina, sì, loro sono molto volenterosi, hanno messo su un bellissimo piccolo museo dove ci sono anche gli argenti, però… Uno Stato serio fa delle scelte e dice “cara Aidone, mi dispiace ma è meglio che un pezzo così bello vada in un museo unico regionale”. Al massimo ne fai due, di musei regionali, perché non possiamo permetterci di averne venti».
È paradossale il discorso di Stella: da un lato mette in croce la pessima abitudine italiana di non tenere in vita opere eccezionali («la manutenzione non porta voti», ha ammonito), dall’altro esalta la pessima abitudine italiana di avere tutto senza faticare. Al Sud, per di più.
Ma come si può pensare di snaturare un’opera con l’intento di evitare dei tornanti? Di strappare un pezzo di memoria storica ad un luogo perché c’è da fare strada per vederla? Certo, è vero che mantenere molti musei costa, ma non si può pensare che un cocktail di pezzi archeologici a chilometro zero possa essere un buon compromesso per attirare turisti. Magari bisognerebbe spronare i Comuni che vantano certe opere a valorizzarle sfruttando i mezzi di comunicazione moderni, facendo piccoli investimenti mirati in questa direzione, ma non spogliarli della propria memoria in nome della cassa. Se certi amministratori locali non sono in grado di portare in casa propria i turisti nonostante le potenzialità che hanno in mano, allora vanno sostituiti. Aiutati in primis, ma se incapaci sostituiti. In Sicilia ci sono siti archeologici interrati al fine di evitarne il degrado: gli archeologi preferiscono conservarli così piuttosto che vederli crollare, come avviene a Pompei. E questo, appunto, perché non ci sono fondi. Stanno per nascere una ventina di parchi nell’Isola per cercare proprio di fare cassa ovviando alla penuria di turisti. Un esempio concreto: nelle Aci, ai piedi dell’Etna, si trova un sito straordinario (citato da Cicerone per l’importanza urbana), le Terme di Santa Venera al Pozzo, un sito in parte ancora interrato che a breve farà parte del “Parco delle Aci”, parco che si autogestirà (in mano ad una direzione competente, con le carte in regola) lanciando una serie di progetti di sicuro richiamo turistico. Questo perché la Regione e gli amministratori locali non sono stati minimamente in grado di valorizzarlo negli anni. E agli amministratori questo sito non è certo sconosciuto: l’ex viceministro Urso ha una casa di dimensioni notevoli a pochi metri dal parco, con una vista-ruderi niente male. Che facciamo quindi, Stella? Tiriamo fuori la vasca greca con gli ex voto sotterrata davanti la chiesetta cristiana votata a santa Venera (sorta per il suo martirio avvenuto proprio lì, dove prima si pregavano Demetra e Kore)? E ci portiamo dietro pure la chiesa, una delle testimonianze più potenti dei legami fra il cristianesimo e le antiche religioni politeiste? Portiamo tutto a Enna, dove hanno realizzato – ragionando sul fatto che quel posto è facilmente raggiungibile da qualsiasi punto dell’Isola – l’unica cittadella dell’outlet siciliana? E magari dentro la vasca greca ci mettiamo il Satiro danzante. E facciamo un biglietto outlet per vederli.
No, Gian Antonio. Non è una buona idea. Come l’altra che hai avuto, quella sui custodi. Insomma: come hai fatto a dire che aver messo a Palermo come custodi del nuovo museo di arte moderna degli ex detenuti «è come mettere a fare i custodi della cocaina degli ex drogati»? Come hai fatto? A quale titolo ti permetti di giudicare tout court un numero di persone che hanno pagato i loro errori con la giustizia? Per rincarare la dose hai pure detto che sarebbe «come mettere una sedicenne davanti a Berlusconi: può darsi che guarisca o può darsi che gli salti addosso». Ma come hai fatto? Non ci sono state risate, né applausi. La battuta ha sortito lo stesso effetto delle ultime battute dell’ex premier. Sia chiaro: qui non si vuol fare l’apologia del moralismo, ma tu ti chiami Gian Antonio Stella e hai guadagnato una credibilità non comune. È difficile scrivere di te in questi termini. Sarebbe stato difficile pure per l’abate Dinouart, che era anche tuo collega. Alla fine, però, da buon giornalista e autore di libri ti avrebbe usato, con buone probabilità, come esempio ne “L’arte di tacere”.
Sebastiano Ambra