Gianluca Calì, imprenditore siciliano originario di Casteldaccia (Pa). Un’altra storia di coraggio, ma più che di coraggio, di DIGNITA’. Un’altra storia che si aggiunge a quella dei sempre più numerosi imprenditori decisi a dire NO all’estorsione, al pizzo, alla perdita della dignità. Un’altra storia dalle meccaniche ormai ben note, rispondenti a sequenzialità ricorrenti. Un’altra storia che DEVE essere raccontata.
Dopo un’esperienza lavorativa che lo vede spostarsi dalla Sicilia alla Lombardia, Gianluca Calì riesce a fondare un’attività redditizia nel campo della rivendita di automobili. Il successo dell’impresa lo porterà a diversificare il proprio campo lavorativo, dedicandosi all’affitto di case vacanza per turisti e all’apertura di un’agenzia immobiliare che si occupa di gestione, vendita e affitto di beni di prestigio. Fin qui una storia normale, il normale decorso di un’esperienza lavorativa fatta di sacrifici, impegno e LEGALITA’.
Una legalità mai abbandonata, neanche quando un ‘signore’, presentatosi come appartenente alla famiglia Flamia, richiede a Calì un ‘contributo’ per aiutare i propri familiari, TUTTI in carcere. “Dobbiamo mantenere le famiglie e pagare gli avvocati. Abbiamo bisogno del tuo contributo”, queste le parole che Calì si è sentito ripetere, più volte. A ogni visita, una denuncia. “Le indagini successive alla mia prima denuncia hanno rivelato che quel ‘signore’ aveva alle spalle 40 omicidi” ci racconta l’imprenditore. E non sarebbe stata la notizia peggiore. In breve tempo Calì scoprirà che la villa acquistata precedentemente all’asta del tribunale di Palermo era di Michele Greco, detto ‘il papa’. “Avevo pestato i piedi a qualcuno, – continua Calì – alle persone sbagliate. Con la mia attività stavo facendo troppa ‘confusione’”. Le richieste continuano, così come le denunce. Arrivano le minacce di morte, le diffamazioni, ma Gianluca non si ferma, non si arrende.
Nel 2013 avviene ciò che rende tutto più ‘chiaro’: gli uomini del corpo forestale della Regione Sicilia sequestrano la villa di Calì, con l’accusa di costruzione abusiva. Certificato di abitabilità alla mano, risalente al 1967, l’imprenditore chiede un riesame del sequestro, in seguito annullato. “Ho pensato si fosse trattato di un abbaglio – spiega Calì in occasione del XXI Vertice Nazionale Antimafia tenutosi il 27 novembre 2015 a Bagno a Ripoli – ma poco dopo ho capito che così non era. Il 15 marzo del 2013 la forestale mi risequestra la casa. A quel punto capisco che c’è qualcosa di più di un semplice errore burocratico. Lo stesso giorno avevo sporto l’ennesima denuncia presso il distaccamento di Bagheria per l’ennesima richiesta estorsiva. Il procuratore mi prende in disparte, mi schiaccia l’occhio, mi stringe la mano e mi dice: ‘lo Stato è con lei, sia forte’. Tre ore prima avevo subito un sequestro da parte di un pm della sua procura, quindi ho pensato che ci fosse qualcosa di strano. 11 giorni dopo, la direzione distrettuale antimafia di Palermo, che coordina il servizio centrale operativo, arresta in toto il distaccamento di Bagheria perché in alcuni casi corrotto e in altri al servizio della famiglia mafiosa di Bagheria. Sentivo di non potermi fidare neanche di un corpo dello Stato.”
Intanto vanno avanti le minacce e le conseguenti denunce, fino ad arrivare al 19 ottobre 2015 : “Davanti la scuola dei miei figli, a Milano, si presentano due signori su una Mercedes dai vetri oscurati. Abbassano un finestrino e con accento siciliano chiedono alla mia babysitter se i bambini che teneva per mano fossero i figli di Calì. Nel frattempo dalla macchina la voce del navigatore comunica l’arrivo alla destinazione richiesta. Mi hanno fatto sapere che possono arrivare quando vogliono ai miei figli”. Trema la voce di un padre al pronunciare la parola ‘figli’. Ma è la stessa voce che si carica di determinazione nel momento in cui pronuncia la parola ‘denuncia’. “Denunciare è un dovere morale” afferma Calì con una fermezza che lascia quasi spiazzati. Una fermezza derivata dalla certezza che è l’unica azione concreta che si possa compiere. L’alternativa, la sottomissione. E Calì di sicuro non si è sottomesso. Al contrario, con il suo agire coraggioso e DIGNITOSO ha permesso l’arresto dei suoi estorsori: “Quando ho iniziato con la mia attività, nel 2011, tutti sostenevano che la mafia non esistesse e che nessuno pagava il pizzo. Questi arresti hanno dimostrato esattamente il contrario: tutti pagavano e pagano il pizzo. Ma c’è un lato positivo e importante: la gente è finalmente stufa e ha preso coscienza del fatto che la denuncia è un sacrosanto dovere morale e civile. Anche la crisi economica sta spingendo i commercianti a togliersi di dosso un cappio ormai troppo stretto. Ma il fattore più importante che sostiene questa decisione è uno Stato presente più che mai. Ha preso coscienza una volta di più del problema, ha messo in campo degli uomini straordinari, con dei mezzi formidabili che permettono intanto di reprimere, ma soprattutto di dare assistenza a chi denuncia, con un’azione concreta di protezione e con supporti economici che permettono di non essere completamente affossati dalla mafia e dal fenomeno mafioso”.
Si carica di fierezza la voce di Calì, di quella forza e determinazione che non possono e non devono passare inosservate. Qualità e virtù che divengono stimolo e impulso all’azione per quanti, ancora tanti, troppi, che ad oggi convivono con un cappio perennemente stretto intorno alla gola. Quel cappio che Gianluca si è sempre rifiutato di indossare, sin da subito. “Sono stato investito come da un treno nel 2011, il 3 aprile quando, dopo innumerevoli minacce, che per me non erano nemmeno degne di nota, mi sono svegliato in piena notte perché diverse auto erano state date alle fiamme. Da allora in poi comincia la mia battaglia in prima persona. Una battaglia che non mi sono andato a cercare: sono stati loro che hanno cercato me. Io, secondo ciò che considero un mio dovere, ho deciso, denunciando, di dimostrare che non sono mai stato disposto a pagare o a scendere a compromessi. Questo lo sottolineo: IO NON HO MAI PAGATO IL PIZZO. NON SONO MAI SCESO A COMPROMESSI. Ho sempre denunciato alle autorità competenti che hanno agito di conseguenza. La grande vittoria è che molta gente finalmente ha cominciato a denunciare. Per me è veramente motivo di orgoglio”.
Il poter essere da esempio, il poter camminare a testa alta per Gianluca significa anche dimostrare che il rifiuto del pizzo non è solo un diritto, ma un DOVERE MORALE che si può e si deve esercitare. Anche quando le intimidazioni continuano, anche quando continuano a dar fuoco alle macchine: “Pochi giorni fa ne hanno bruciata un’altra. Ma questo non mi tocca più di tanto. La distruzione dei beni materiali ovviamente mi dà fastidio, ma non è una cosa che mi inquieta più di tanto. La cosa che mi ha terrorizzato e mi terrorizza è il pensare alle minacce ai miei figli.”
Ma Gianluca non è solo: “Qualche settimana fa sono stato contattato dalla questura di Milano per essere informato sull’attivazione del servizio di vigilanza. Questo mi incoraggia, così come l’impegno da parte del senatore Lumia: ha fatto un’interrogazione parlamentare, dei comunicati stampa, come anche il senatore Gianrusso, anche lui membro della commissione antimafia. Tutto questo mi fa capire che, anche se esiste un apparato dello Stato burocratizzato che non è attento, non è attivo, non è pronto a fornire un appoggio concreto, ci sono altri apparati politici che rappresentano lo Stato e che invece fanno qualcosa di concreto e importante.”
E l’azione di Calì non si ferma a fornire indirettamente un esempio per quanti siano ancora intrappolati in una morsa che immobilizza. Il suo agire punta anche alla sensibilizzazione, all’appoggio e al sostegno. Nella terra di Bernardo Provenzano, ove ancora nella gente comune è radicato il pensiero mafioso, Calì considera necessaria un’azione informativa che parta dalle scuole: “tutto rende necessario che, fin dalle scuole elementari, le nuove generazioni vengano educate alla legalità e al contrasto del fenomeno mafioso. Queste sono cose che io, nel mio piccolo, cerco di realizzare. Andando nelle scuole di ogni ordine e grado, raccontando la mia normale storia di imprenditore che mi permette quotidianamente di avere grandi soddisfazioni, soprattutto quando vedo negli occhi dei ragazzi una luce diversa rispetto a quella che avevo io quando avevo la loro età”.
C’è chi lo chiama ‘coraggioso’, chi lo definisce un ‘eroe’. A questi Calì risponde: “Non mi sento né un diverso né tantomeno un eroe. Sono una persona normalissima e faccio solamente e semplicemente quello che è mio dovere morale e civile fare. Sono solo un imprenditore e un padre di famiglia.”
Noi, non lo definiamo né ‘eroe’, né ‘coraggioso’. Semplicemente, Gianluca Calì: un Uomo che ha detto NO al pizzo. Un Uomo che difende la propria DIGNITA’. Punto
Gaia Stella Trischitta