Giornalismo antimafia, fra storia e contemporaneità

Dopo aver sottolineato l’importanza del mantenere vivo, anche all’interno dell’Università, il tema della Mafia e l’educazione alla legalità, Marco Centorrino, prof di Sociologia della facoltà di Scienze della Formazione, e la dott.ssa Claudia Benassai, introducono e presentano il seminario di giornalismo antimafia svolto venerdì 19 settembre presso l’aula magna ex-facoltà di economia e commercio, con i relatori Giacomo Di Girolamo, giornalista ed autore antimafia di Marsala, Letterio Romeo, dirigente sez. operativa della DIA, Nuccio Anselmo, giornalista di cronaca giudiziaria della Gazzetta del Sud.

Di Girolamo analizza alcuni punti critici del giornalismo odierno. “La storia non può essere più raccontata”, l’informazione oggi arriva in quantità e molteplicità di fonti, anticipando lo stesso giornalista. “Mancanza di opinione pubblica”, il pubblico fa sfuggire velocemente l’attenzione sulla notizia volante recepita e la conseguente formazione di un pensiero. “Giornalismo resistente”, l’antimafia è un settore giornalistico particolare, seguito da giornalisti che attenzionano il tema con preparazione e costanza, quindi non catalogabile come generalista. Infine “Giornalismo residente”, il fare giornalismo di provincia senza essere provinciali, con la consapevolezza di vivere in prima persona la stessa realtà locale che si racconta e descrive, la scelta di occuparsi di mafia come priorità di cui parlare, considerando che è la cosa più vicina al nostro territorio, raccontandone con naturalezza proprio perché si vive la propria terra.

L’autore del libro “Cosa Grigia” prosegue spiegando l’evoluzione della mafia fino ai giorni d’oggi, arrivando a quella “zona grigia” dove attualmente risiede. Potrebbe essere agile pensare che dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, Cosa Nostra non esista più considerando la fine in senso strutturale di un’organizzazione storicamente definita. In realtà, la mafia ha cambiato forma evolvendosi ed incarnandosi completamente in quelle componenti che prima fungevano da collegamento con Cosa Nostra come politici, amministratori, funzionari, imprenditori. Diviene quindi pienamente parte dell’apparato pubblico, economico, entra nei sistemi gestendo il legale in modo illegale. La “zona grigia” per l’appunto. Non rientra più quindi soltanto nello schema classico estorsione, droga, cemento, ormai “normalmente” in gestione ai più bassi sottoposti. La principale attività mafiosa non agisce più per territorio ma per competenza, entra nei gangli dello Stato, non ha più bisogno di giochi di forza, scompare il classico omicidio di mafia perché sembra non ce ne sia più bisogno, visto che dal settore pubblico non estorce più, ma intercetta direttamente finanziamenti statali e, addirittura, dell’Unione Europea.

Di Girolamo poi sposta l’attenzione sull’Antimafia. La Sicilia non è solo artefice di mafia, ma è anche terra di antimafia, però, se la mafia cambia, dovrebbe farlo pure l’antimafia; e invece non è così. E’ un’antimafia non attrezzata contro “cosa grigia”, vista oggi quasi solamente come rito, retorica, con conferenze, progetti, scuole. L’analisi è molto dura verso l’antimafia di oggi; è più il contorno che la reale concretezza. Nonostante le evidenti insufficienze dell’antimafia di oggi, non tutti comunque sentono di sminuirla troppo, apprezzando e cercando di mettere in evidenza l’impegno per una reale sensibilizzazione verso l’educazione alla legalità. Il problema di assenza di concretezza ed evoluzione verso una “nuova” antimafia, resta comunque.

Prosegue il colonnello Letterio Romeo della DIA di Messina, soffermandosi sul “Metodo Falcone”. La DIA, Direzione Investigativa Antimafia fu creata nel 1991 su volontà di Giovanni Falcone, coinvogliando in una struttura le forze specializzate dello Stato come il Ros per i Carabinieri, SCICO per la Guardia di finanza e SCO per la Polizia di Stato. Fu introdotto in Italia il reato di mafia nell’82, ancora inesistente in molti paesi, secondo il quale non andavano perseguiti solamente i singoli reati, ma bisognava individuare le dinamiche nel complesso, nel contesto associativo. Seguirono quindi i maxiprocessi i cui esiti provocarono le stragi. Le caratteristiche del metodo Falcone sono quindi il concetto di squadra, rendere difficile l’identificazione dei magistrati tramite la diretta attività della procura di Palermo, gestione dei collaboratori di giustizia per capire com’era strutturata l’organizzazione sul territorio e scoprire di cosa si occupava, aggredire quindi i patrimoni mafiosi e seguirne la parte economica, gli affari. Onere della DIA, esportare queste tecniche investigative anche all’estero.

Termina l’incontro, il giornalista Nuccio Anselmo, ricordando come sia da sfatare il mito di Messina “città babba”, definita così dal collaboratore Buscetta. Molti altri negli anni ’60 ritenevano che per motivi storici, culturali ed antropologici, la mafia non esistesse a Messina e Siracusa, fuorviando dalla realtà con il risultato di un abbassamento di guardia nocivo del fenomeno. Furono sottovalutate organizzazioni mafiose sul nascere che andavano prevenute. Il risultato fu 47 omicidi di mafia a Messina nel contesto delle guerre fra clan rivali. Nell’83 ci fu il primo reato di associazione mafiosa a Messina, con l’arresto di Ingemi e De Tullio per associazione a delinquere di stampo mafioso, certificando la presenza di estorsioni. Si scoprì presto Messina come un centro di collegamento fra Mafia, Ndrangheta e Massonerie deviate. Già nel ’72, Gaetano Costa ebbe i primi contatti con la Ndrangheta, divenendo capo di una società affiliata, prima comandata da De Tullio. Nel 1986, il maxiprocesso coinvolge anche Messina e Barcellona P.G. con l’esito clamoroso della maggiorparte degli imputati che viene assolta. Gli stessi PM commentarono come la sentenza non corrispondesse alla realtà. Successivamente emersero figure come Michelangelo Alfano, imprenditore di Bagheria, residente in città come punto di congiunzione fra Messina e Cosa Nostra, Sparacio, erede di Costa e non affidabile collaboratore di giustizia. Allo stato attuale figura il clan di Mangialupi come preminente in città sugli altri clan locali, l’omicidio del giornalista Beppe Alfano e le “operazioni Gotha” ad opera delle forze di polizia tutt’ora in corso a Barcellona P.G. Attivo nell’Antimafia e dopo diversi notevoli ostacoli nell’attività giudiziaria, a testimonianza di quella “zona grigia”, Vendola definì Messina un “verminaio”, una città che univa due cosche; tutto tranne che una “città babba”.

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