Anno 2026, tre giovani architetti stanno svolgendo un sopralluogo una villa romana all’Appia Pignatelli appartenuta ad un amico del boss Giuseppe (Pippo) Calò. La villa, da anni in stato di abbandono e successivamente colpita da un misterioso incendio doloso che, oltre a danneggiare ulteriormente la struttura, apre l’accesso ad una ‘stanza segreta’ sulla quale circolano molte leggende di incontri segreti tra mafiosi e politici. Un baule pieno di documenti segreti e scottanti che parlano di mafia, massoneria, Ior. Un faldone su due magistrati, Giovanni e Paolo. E un’agenda, rossa. Questi gli elementi teatrali da cui prende il via “Giovanni e Paolo. Tributo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” di Alessandra Camassa per la regia di Luca Milesi e con Luca Milesi, Maria Concetta Liotta, Alberto Albertino, Fabrizio Bordignon, Serena Renzi e Paolo Gatti in scena dall’11 al 14 maggio al Teatro di Tor Bella Monaca di Roma. Un testo, quello della magistrata trapanese a capo del tribunale di Marsala da sempre vicina a Falcone e Borsellino, che parte da un punto di vista particolare riportando in scena i due colleghi uccisi dalla mafia ormai morti e consapevoli di esserlo. È, infatti, dall’aldilà che i due, rincontratisi rompendo il patto di non frequentarsi più, che osservano e commentano quanto avvenuto nell’aldiqua dopo la loro tragica morte.
Un racconto che non fa sconti a quanti avrebbero dovuto raccogliere l’eredità di Falcone e Borsellino ma neanche a loro mettendone in luce le differenze caratteriali in continuo, seppur bonario, battibecco tra i due che ne restituisce l’umanità ponendoli al di fuori di quell’aurea di eroicità delle celebrazioni, istituzionali e non. «Noi abbiamo voluto capire. I singoli fatti delittuosi erano tutti collegati. Cosa Nostra era una struttura organizzata uno vero e proprio Stato nello Stato. Ci chiamano eroi, ma non lo siamo perché siamo morti che mi sembra una vera sciocchezza. Ma perché abbiamo voluto capire e conoscere con ostinazione», fa dire infatti l’autrice ai due magistrati. La scenografia essenziale ma d’effetto si avvale nei momenti in cui i giovani architetti ripercorrono attraverso le carte l’infanzia dei due giudici della proiezione di filmati di docufiction o di repertorio in una sorta di metateatro che porta lo spettatore dentro una storia che va ben oltre quella messa in scena dagli attori e ricolloca i fatti e i personaggi nella storia, nella realtà. Ad interrompere il battibeccare di Falcone e Borsellino improvvisamente irrompe sulla scena un «vecchio mafioso dell’alcamese che fu coinvolto nel rapimento di Franca Viola e nel sequestro Campisi»: Giuseppe (Peppe) Ferro.
Mafia e politica, figli dei mafiosi da far studiare affinché diventino la futura classe dirigente e i futuri magistrati: questa è «la politica vera, chidda antica», spiega il boss, divenuto collaboratore di giustizia dopo la condanna con sentenza definitiva per la strage di Firenze. Una mafia che cambia pelle e modalità di azione, che si riorganizza – come emerge dalle parole di Ferro, tratte dal dibattimento del 2002 del processo ‘Arca’ – senza che però lo Stato riesca ad arginarla: «Lo sanno benissimo che tutto è cambiato ma stanno a guardare, ma oggi la situazione è troppo evidente. I magistrati e i poliziotti sanno chi sono i mafiosi – commentano in scena i due giudici – ma il potere di costoro non viene ostacolato perché non c’è dubbio che la politica ha ancora bisogno della mafia per ottenere il consenso elettorale e siccome è un mezzo facile non ne vuole fare a meno. La politica ha bisogno della mafia per vincere le elezioni». Parole amare da parte di chi, in quella lotta, ha perso la vita e che oggi guarda all’aldiquà con qualche perplessità. «Voglio parlare, troppe cose sono accadute da quando siamo andati via.
Le nostre idee, quelle che camminano sulle gambe degli altri, inciampano Paolo. Quanti ostacoli..», afferma un amareggiato Falcone. «Infatti, Giovanni, io avrei preferito continuare a camminare sulle mie di gambe.. ».