“Ora che ho perso la vista ci vedo di più”. Alfredo, il proiezionista di Nuovo Cinema Paradiso, diventato cieco dopo un incidente e interpretato da Philippe Noiret nel capolavoro di Giuseppe Tornatore, esprime con questa frase ciò che la regista Dina Guder, il suo cast e l’intero staff cercheranno di rappresentare in un corto metraggio di trenta minuti, ancora privo di titolo. Un film sulla vista quando la vista non c’è, nulla di nuovo. Se non fosse che la cecità, tema centrale del corto, è anche il tema centrale delle vite di coloro che cercheranno di realizzare l’opera.
Gli attori, il cameraman, il tecnico del suono e delle luci, il costumista-truccatore e la stessa Guder, infatti, sono tutti accomunati dall’assenza della vista e cercheranno con ogni mezzo di mostrare a tutti come sia il loro mondo, con un film che non potranno vedere. L’idea è stata di Yaeli Rokach, direttrice del centro servizi per i non vedenti di Ramat Gan, il quartiere di Tel Aviv dove si gira una volta a settimana per due ore, con l’obiettivo di chiudere le riprese in primavera. Stupita dall’abilità e dalla passione con cui alcuni dei suoi assistiti utilizzavano la telecamera, la Rokach ha coinvolto tutti in quest’incredibile progetto, con il supporto della “Reia”, una scuola di comunicazione israeliana, e del suo vicedirettore, Sami Khalil.
La pellicola, realizzata con un budget ridottissimo, è un dramma comico, come spiega la stessa Dina Guder. La protagonista è una ragazza che, cieca dalla nascita e emarginata dalla sua stessa famiglia, decide di abbandonare la propria casa e, durante la fuga, incontra un ragazzo con cui intreccia una commovente storia d’amore tra passeggiate in riva al mare e gite in moto. Il ragazzo, però, per uno strano gioco del destino, perderà la vista come la sua amata, in seguito a una grave malattia. La sfortunata coincidenza rafforzerà l’amore dei due, portando il giovane a scoprire molte cose della vita della protagonista e a conoscere meglio lei e il suo mondo. La forza del progetto, in ogni caso, non sta tanto nella storia, che probabilmente potrà sembrare poco originale, quanto nel modo in cui questa verrà rappresentata e, soprattutto, dalle tecniche con cui verrà realizzata. Un film in cui nessuno vede né la propria posizione né quella dei colleghi come può essere girato? Con il silenzio. È questo il presupposto fondamentale grazie al quale potremo vedere questo film. Al ciak, infatti, ogni suono si ferma, finché regista, attore, cameraman e tutti i membri dello staff, in ordine, gridano il proprio nome in modo tale da identificarsi nello spazio e, soprattutto, da rapportare la propria posizione a quella altrui. Anche la fiducia è un elemento importante del progetto: affidereste mai la propria immagine ad un costumista/truccatore cieco?
A questo esperimento si può associare quello condotto dal cineasta Mohammad Shirvani, regista di cortometraggi e documentari, che in seguito ad un sogno in cui perdeva la vista, ha realizzato nel 2008 in Iran un’opera composta da sette brevi episodi autobiografici, girati da altrettante donne che convivono da sempre con la cecità. L’occhio della telecamera ci mostra la vita di ognuna di esse: c’è chi vive da sola, c’è chi è riuscita a creare una famiglia e chi vive con la madre. Dei sette episodi soltanto sei sono stati pubblicati (una delle autrici ha deciso di non mostrare il proprio), ma in ogni caso il film non è stato il progetto innovativo che si proponeva di diventare, anzi tutt’altro. Ottimi, invece, i risultati raggiunti dal cinese Kim Ki-Duk con “Ferro 3 – La casa vuota”, un film che, seppur lontano dal mondo della cecità, potrebbe essere accostato al corto della Guder per l’evocazione sensoriale che incute nello spettatore la quasi totale assenza di dialoghi in tutti i 90 minuti della pellicola, in concorso alla 61esima Mostra internazionale del cinema d’arte cinematografica di Venezia. Anche se, naturalmente, il progetto israeliano resta unico nel suo genere. Il cinema, una delle forme d’arte più complete che esistano, in cui vista e udito si fondono per dar vita a uno spettacolo unico, è pronto ad accogliere persone per cui il mondo è privo di colori? Lo scopriremo se il film verrà portato a termine e, soprattutto, mostrato al pubblico, nel tentativo di guardare la realtà da una prospettiva difficile anche solo da immaginare. Un cortometraggio che potrebbe entrare nella storia, non per la disabilità dei protagonisti o per la storia, ma per le tecniche usate, la particolarità della fase realizzativa e la rappresentazione di questo mondo “diverso”. Che sia un colpo di genio o un flop, resta un progetto unico nel suo genere, di cui fare una bandiera per abbattere la distanze che ci separano dalle disabilità.