GIULIANA SALADINO

Appassionata ed eclettica, la personalità di Giuliana Saladino si manifesta in ogni aspetto della sua vita, dall’impegno politico a quello civile, dalle relazioni sociali ai rapporti familiari vissuti sempre con estrema partecipazione e onestà intellettuale. Nata nel 1923 in una famiglia palermitana con ascendenze nobiliari, la Saladino aderì al PCI nell’immediato dopoguerra, a 18 anni, e seguendo l’ondata di speranze e passioni che muoveva quegli anni, sposò da subito la causa delle organizzazioni femminili a cui si sentì legata da sincera condivisione. Ben presto però il suo indomito spirito giornalistico ebbe il sopravvento manifestandosi nell’esigenza di capire, indagare senza vincoli ideologici e contestare la realtà che la circondava. Cominciò a lavorare per il quotidiano “L’Ora” prima come segretaria di redazione, poi ricoprendo ruoli sempre più importanti e impegnativi fino a diventare una colonna portante del giornale. Condusse una serie di inchieste sul campo: le donne, gli emigrati, il terremoto del Belice, i partiti politici siciliani, la mafia. E’ soprattutto a quest’ultima che dedicò gran parte della sua attività dopo avere lasciato il PCI nel 1957. Alla truce vicenda De Mauro, il giornalista de “L’Ora” sequestrato sotto casa e mai più ritrovato, dedicò il suo primo libro De Mauro, una cronaca palermitana. Davanti alle stragi ordite dalla criminalità organizzata, la Saladino si rese protagonista del movimento della società civile per il ripristino della legalità. Animò il cosiddetto “popolo dei fax” per richiamare l’attenzione del Presidente della Repubblica su una realtà invisibile solo all’apparenza,quindi, portando avanti un’idea della figlia Marta, mise in piedi il Comitato dei lenzuoli, che investì tutta la città e che col piccolo breviario dei “Sette consigli scomodi”, indicò la strada della responsabilità personale di ognuno nel cercare di arginare il fenomeno mafioso. Accettò la collaborazione con “Mezzocielo”,  periodico femminile, mostrando il desiderio mai sopito di “sentirsi dalla parte delle donne”.  Nel 1976, sull’onda di un periodo di grande risveglio della coscienza pubblica in Sicilia che aveva bocciato il referendum contro il divorzio, collaborò alla stesura di un libro collettivo, Essere donna in Sicilia.

Alle soglie dei 70 anni partecipò con entusiasmo alla campagna elettorale del dicembre ’93 per il rinnovo del comune di Palermo e dopo le elezioni accettò di ricoprire la carica di Assessora alla Cultura della Giunta Orlando coordinando il primo incontro nazionale dei periodici femminili autogestiti. Quando si dimise da questo incarico, la delusione patita fu un chiaro campanello d’allarme del processo di esaurimento della “Primavera di Palermo” che portava con sé luci ed ombre di un’esperienza intensamente vissuta. Negli ultimi anni della sua vita Giuliana Saladino tornò all’  amata campagna e alle interminabili e fertili discussioni con i propri amici. Morì poche settimane dopo l’8 Marzo del 1999.

La produzione letteraria di Giuliana Saladino è permeata da atmosfere di grande amicizia e solidarietà e i temi trattati sono interpretati alla luce di una sincerità a volte aspra ma che non tradisce mai se stessa.

In Terra di rapina  (1972), vige l’interpretazione di una Sicilia fatalisticamente dominata dalla legge del non cambiamento, fondata sul peccato antico dei siciliani di sentirsi perfetti che trasforma la storia nella filosofia di un circolo sempre uguale. É una raffigurazione della Sicilia che Giuliana Saladino non poteva amare e, probabilmente, nemmeno giudicava del tutto innocente.  Terra di rapina, fu accolto all’uscita come un magnifico reportage. Un’altra epica della Sicilia, che solo il prevalere di mitologie compiacenti o assolutorie può lasciare relegata all’ambito nobile ma ristretto del reportage. Giuseppe Di Maria, di Cianciana, provincia di Agrigento, nel 1972 si rese protagonista di un clamoroso fatto criminale: un colpo in banca fallito e conclusosi col linciaggio del rapinatore. Giuliana Saladino, a pretesto di questo episodio, scese nei luoghi di origine del criminale, nel cuore più antico della Sicilia del latifondo dello zolfo e della mafia, dove si incontrano le province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta, a spiegarsi come si diventa banditi siciliani a Torino. «Una memoria collettiva – scrive lei – su fatti e circostanze recenti» che dipana avanti agli occhi del lettore l’epopea di un’altra generazione senza peccato metafisico che tentò e fallì. Contadini e solfatari della riforma agraria, che videro un futuro tra paesaggi che si pretendono senza tempo, e furono battuti. E dopo la sconfitta scelsero un’altra via di civiltà, dolorosa e vitale: il più grande processo migratorio della storia, mentre sulla loro sconfitta, e sul loro coraggio di esuli, le terre impoverite di intelligenze e di cultura civica, perversamente costruivano una loro modernità che è poi stata la nostra. Così, questo romanzo conduce alla scoperta della verità sul bandito di Cianciana: il bandito altro non è che lo sfogo di una terra bandita.

Romanzo civile, pubblicato postumo (2000), descrive un mondo che va scomparendo, la cui memoria va conservata e apprezzata come “amor vitae” e “contemplatio mortis”


La vicenda si svolge a Palermo dal 1943 quasi ai nostri giorni e racconta la vita e la morte di Lillo Roxas in un intreccio di eventi politici, di affetti, di appassionati colloqui in cui il pubblico diventa privato e viceversa. E’ una vicenda intellettuale, un’atmosfera in cui i fatti sono raccontati per accenni e costituiscono il senso vero della discussione. E’ la storia di una amicizia e di una morte che accade a Palermo, ma si è ripetuta in ogni angolo d’Italia, dovunque fra intelligenze e sentimenti si stabilissero contatti, scintille, contrasti, delusioni, domande e ironie.

La biografia di Roxas, Rocchi per gli amici, è la biografia della intellettualità di sinistra in Italia quando esisteva il PCI, il “grande e glorioso”, la nave ammiraglia al centro della sua flotta: sindacati, cooperative, lotte contadine, scioperi operai, circoli culturali. Una flotta a volte ferma, eppure amata e rispettata perché presente in ogni battaglia per la democrazia, per il lavoro, per la cultura. Nel cerchio degli amici di Rocchi nascono le domande e i dubbi sulle ambiguità delle Botteghe Oscure, sulla bonaccia delle Antille, “sui grandi irrisolti problemi meridionali, sugli angosciosi perché del socialismo reale, sui risvolti del potere al Pentagono o al Cremlino” e, perché no, al Municipio di Palermo e nella lotta alla mafia. Ma i dubbi, le ironie, le battute sarcastiche non interrompono la rete di “iniziative”, di scioperi, di occupazione di terre, di lotte, di campagne elettorali per racimolare un pugno di voti. E nemmeno, quando mancano le idee, riescono a fermare il “perenne diluvio di aria fritta, convegni seminari congressi dibattiti tavole rotonde conferenze incontri”.

La malattia di Rocchi arriva improvvisa e affrontata laicamente, razionalmente. Ma nemmeno la morte imminente riesce a interrompere fra Rocchi e gli amici “il discorso politico, sociale, civile durato trent’anni” e che in fondo era la loro ragione di vita. Rocchi muore a 51 anni per un cancro incurabile e inoperabile. Gli restano sei mesi di vita, e lo comunica agli amici con semplicità. La notizia raggela gli animi ma non muta gli affetti, anzi aumenta le attenzioni, le frequentazioni intellettuali.

Quando la qualità della vita residua sta per scadere in inutile sofferenza per sé e per gli amici, dopo una deliziosa serata di gelati e di chiacchiere, Rocchi beve la sua cicuta. Gli amici scoprono nella desolazione del giorno dopo il fulgore della sua assenza. Il mondo non sarà più come prima.

Così finisce il “ vivido, corale, commovente racconto” di alto profilo etico e civile.