Giulio Cavalli, la mafia dentro casa

Realizzai questa intervista qualche settimana fa, quando decisi di condurre una mia inchiesta sulle collusioni fra arte e potere. Non sempre una vicinanza positiva nella storia; che quando l’arte, così come anche la scienza, si piegano ai disegni del potente finiscono per diventare complici strumenti di  terrificanti crimini.

Giulio Cavalli è un attore, giovane e di talento. Una determinazione, una coerenza con una certa idea di giustizia che sgorga precisa da ogni sua parola. Non ci sono compromessi nei suoi spettacoli, e dentro la sua vita. I compromessi e le collusioni di cui parla nell’intervista, oggi hanno assunto la consistenza di una mano che si muove nell’ombra, una mano sicura che gode di protezioni istituzionali e che si è spinta fino a sistemare una rivoltella carica davanti alla finestra del suo studio. Perchè è solo se si conta sulle protezioni  ai massimi livelli che si possono compiere certe azioni con la sicurezza di rimanere indisturbati e non identificabili.

Giulio Cavalli è sotto scorta da tempo per per avere portato in scena fatti inconfessabili e di cui il potere non vuole che i cittadini sappiano: la capillare presenza della mafia al nord Italia e le complicità con certa  politica, locale e non; una mafia che si è spinta fin nel cuore delle “tranquille” e produttive provincie lombarde, il traino dell’economia nazionale. Una mafia che esiste ed è forte, tanto forte poiché è nascosta, negata e taciuta. Soprattutto da certa politica che così può continuare indisturbata a manovrare e a fare affari.

Perchè se la politica fosse estranea a certi segnali, a certe collusioni, leverebbe alto il suo grido per inchiodare chi ha sistemato quell’arma dentro la sua casa; agirebbe ad ogni livello possibile per sapere chi è potuto entrare tranquillamente dentro l’abitazione sorvegliata  di un cittadino sotto scorta.

Perchè un attore del nord Italia, un lombardo, decide di occuparsi di mafia?

La mia vicenda ha inizio da Gela: sto preparando questo lavoro con Rosario Crocetta, siamo nel 2006, affrontando il problema  mafia a partire dalla lezione  di Peppino Impastato.

Le prime minacce risalgono addirittura alla preparazione dello spettacolo; la mia presenza a Gela si fa più frequente per partecipare a conferenze e incontri anche grazie ad alcune associazioni antimafia. E tutto trae spunto dalla vicenda della famiglia gelese dei Rinzivillo (la famiglia dei Rinzivillo risulta alleata con Piddu Madonia, loro referente e, tramite questi, in stretta alleanza col clan corleonese di Bernardo Provenzano n.d.r.) la quale vince un appalto molto grosso a Tavazzano con Villavesco, dove abitano i miei genitori e dove io sono cresciuto. Infatti, dalle indagini svolte, le prime minacce che ho ricevuto partivano non dalla Sicilia, ma da Lodi. Da qui è diventato naturale occuparmi di mafia al nord.

Quindi la mafia non è un problema solo del sud Italia?

Guarda mi hanno accusato di essere responsabile di avere portato la mafia al nord.

Ma tu sei un giornalista o uomo di spettacolo?

In realtà io mi sento più giornalista che teatrante, nel senso che a me è sempre piaciuta l’indagine. Spesso l’inchiesta viene vissuta come qualcosa di cartaceo, che non può trasformarsi in qualcosa di narrabile. Quando ho messo in scena “A cento passi dal duomo” ciò che dicevo dal palco Gianni Barbacetto lo scriveva già da tempo. E’ la dimostrazione che il teatro ha maggiore credibilità, a differenza del giornalismo.  E’ un terreno in cui c’è più libertà, meno pressioni.

Perchè quando la cronaca sfiora fili scoperti, e mi riferisco ai tanti casi di depistaggio politico spesso consumati con la complicità di certo giornalismo,  nonostante il  tentativo di certa controinformazione, poi alla fine quel che passa è un’idea mistificata degli eventi?

Perchè purtroppo viviamo in una telecrazia, proprio nel senso più temuto da Pasolini che poi è il senso più sperato da Licio Gelli. C’è una grossa difficoltà a difendersi dalla mala informazione o dalla deformazione proprio a livello quantitativo. E poi siamo un paese che culturalmente e intellettualmente si è impigrito moltissimo. Anche questo è il risultato di un progetto a lungo termine. Siamo un paese disabituato ad allenare il muscolo della curiosità, che spesso ha bisogno di trovare qualcuno a cui affidarsi completamente piuttosto che creare chiavi di lettura collettiva. Ecco, manca chi si assuma la responsabilità di crearle queste chiavi di lettura. E poi siamo un paese che politicamente ha una classe dirigente dal bassissimo spessore etico, ma anche e soprattutto dal bassissimo spessore culturale: oggi è raro che un intellettuale si presti alla politica.

La mafia è letteralmente sparita dall’agenda politica del paese, per entrarvi sotto forma di  prodotto televisivo di basso profilo. Fiction come Il Capo dei Capi hanno registrato audience altissime e un grosso successo di pubblico, soprattutto fra un certo tipo di giovani. Cosa pensi di certe produzioni televisive?

Se esistesse il reato di favoreggiamento culturale alla mafia il Capo dei Capi sarebbe un corpo del reato. Penso che ogni tanto qualcuno si trincera dietro la scusa di fare satira, ma noi siamo un paese che ha il dovere, anche a livello televisivo, di sapere che su certi argomenti siamo in fase di alfabetizzazione. Le fascinazioni, se pur negative, sono un metodo molto squallido per rendere spendibile un piatto che altrimenti apparirebbe per la banalità di cui è fatto. Siamo riusciti a rendere  Totò Riina un eroe negativo; o far credere che Provenzano era un genio del male. E’ ovvio: più noi rendiamo eroici loro e meno si sente l’urgenza di sapere chi sono i personaggi istituzionali che gli sono stati vicini.