Giuseppe Gulotta e il monologo dei suoi perche’

Giuseppe Gulotta la sua giovinezza l’ha passata in una cella. La sua colpa è stata quella di confessare un crimine che non aveva mai commesso. Era la notte del 26 gennaio del 1976 quando due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta vennero assassinati. Le indagini si chiusero in fretta e furia e accantonate le tesi eversive e di una strategia destabilizzante emerse una sola “verità” confermata allora dal questore di Trapani Giovanni Ajello alle testate nazionali: “Nessun legame politico, sono esponenti della nuova delinquenza”. Sull’altare della giustizia vennero allora consegnati le teste di quattro giovani: Giuseppe Gullotta, Gaetano Santangelo, Giovanni Mandalà e Giuseppe Vesco”. Oggi sono molteplici le verità che si impongono prepotentemente grazie anche al libro “Alkamar” edito da Chiarelettere scritto dallo stesso Gulotta e dal giornalista Nicola Biondo.

La prima è che un’innocente ha assistito un vero e proprio calvario giudiziario grazie a una confessione che gli è stata estorta per sfinimento per le botte e le angherie che ha subito da carabinieri che hanno usato dei metodi beceri e violenti e anticostituzionali. La seconda è che lo Stato non ha chiesto scusa a un cittadino che “ha imparato a non farsi consolare dalla rabbia e dal dolore e ha subito la tortura peggiore quella di essere definito un assassino”. E proprio ieri Messina la scuola forense in collaborazione con la libreria Bonazinga ha dato voce a questa storia presso la Corte d’appello del tribunale per dare un segnale forte alla città come ha sottolineato il responsabile della scuola l’avvocato Paolo Vermiglio: “Abbiamo aperto il portone alla città . Quella dell’avvocato d’altronde è una professione che deve aprirsi anche su temi ostici. I termini legalità e giustizia non sono sinonimi. Un condannato può rispettare la sentenza solo se sono statti rispettati tutti i termini di legge. Questo evento come gli altri che abbiamo organizzato è dedicata alla memoria di Pucci Amendolia che sosteneva proprio il principio che chi esercita questa professione non deve paura di esporsi. Ora il caso di Gulotta rappresenta la notte della Repubblica”.

 All’interno del dibattito il giornalista della Gazzetta del Sud Nuccio Anselmo ha letto i passi più cruciali di questo libro di denuncia civile che non assolve quei magistrati che hanno finta di non vedere quei cronisti che hanno peccato di superficialità come il momento della confessione estorta rievocata dall’innocente condannato: “Mi dicevano che dovevo dargli delle informazioni. Quando dei carabinieri mi hanno prelevato a casa credevo che fosse per un concorso che pochi giorni prima avevo fatta a Roma per arruolarmi nella guardia di finanza. Quando mi hanno portato in caserma mi hanno dato delle botte da orbi . Avevo mani e piedi legate e non avevo alcuna possibilità di muovermi. Mi accusavano della strage di Alcamo. Io di quei ragazzi avevo sentito parlare al telegiornale, nemmeno li conoscevo. Ad un certo punto però non potevo far altro che rispondere di “si”. E’ scattato l’istinto di sopravvivenza di fronte all’intimidazione e alla paura.

Avevo solo 18 anni”. L’avvocato di Gulotta in coda all’evento ha sottolineato i limiti del nostro sistema democratico: “Nessuno ha chiesto scusa a un uomo che è stato sacrificato sull’altare dello Stato. Il caso è una contraffazione della verità processuale”. Chissà cosa avrà provato Giuseppe Gulotta nel ripercorrere a ritroso nel tempo gli eterni tempi bui in cui per 36 anni è stato un assassino, un padre assente e un cittadino violato. Chissà quante volte tra la luce delle sbarre ha pregato che qualcuno desse voce alla sua verità. Chissà poi se le parole di ieri riusciranno a ridare dignità a un uomo che ha pianto in solitudine ripetendo sempre sotto forme di grida silenziose la sua innocenza. Parole che fino a poco tempo fa era solo il monologo dei suo perché e che oggi dovrebbero far riscoprire il valore immenso della giustizia e dell’umanità. Oggi Giuseppe vuole essere una testimonianza e un aiuto per gli altri . Non cova nessun sentimento di rivalsa e vendetta.

Crede nello Stato e nei suoi valori. Nel frattempo ha fatto rispolverare quel monito imperituro che dovrebbe essere impresso in tutte le aule di giustizia: “Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano”. Intanto nel 2013 il mare di Alcamo questo restituisce: vite spezzate e misteri che nessuno sembra conoscere.

Claudia Benassai