La violenza in famiglia: uno sguardo alla situazione delle immigrate

Nell’anniversario della ricorrenza della giornata internazionale della donna, non possiamo non rivolgere la nostra attenzione a quelle forme di violenza che si consumano all’interno dell’ambiente familiare ed hanno come vittima, la donna. Sono giunta a pensare che oggi, la famiglia, è il luogo meno sicuro per una donna, visto che, è proprio all’interno del focolare domestico che le donne, come in passato, vengono uccise in tanti modi escogitati da uomini.

È sono quasi sempre mariti o compagni, fidanzati, padri o fratelli, che decidono di metter violentemente fine alla vita di quelle donne che sono uscite dagli schemi, che non hanno accettato le ridicole imposizioni degli uomini, e hanno deciso di ribellarsi, pagando a duro prezzo questa insubordinazione, appunto, con  la propria vita

La cronaca è attentissima alle vicende di sangue, e le vittime si chiamano soprattutto per nazionalità: italiana, rumena, pachistana, albanese o marocchina.

La violenza cui la donna è sottoposta nell’ambito delle mura domestiche è una realtà imponente di cui ci sfuggono le reali dimensioni, stante l’alto numero oscuro.

La nostra indignazione aumenta all’inverosimile se pensiamo che la politica, s’è sentita costretta solo da pochi anni a parlare di violenza sessuata, usandola spesso a pretesto per provvedimenti inaccettabili.

Mi riferisco, ad esempio alla fattispecie attenuata di reato, l’omicidio e la lesione personale per causa d’onore, che è stata abrogata dal nostro Codice penale solo nel 1981.

La famiglia è spesso  luogo di sopraffazione, in cui il bisogno di amore e di sicurezza non trova risposte o trova risposte sbagliate,  poiché questo tipo di violenza privata, nasce dal riverbero in essa, di un  sentire comune nella società, che vede afferma la posizione di dominanza maschile nell’ambito del rapporto intersessuale.

Le vittime,  vengono indotte a vivere la loro condizione, come ovvia conseguenza di una sottomissione considerata come “ordine naturale”, in cui l’uomo comanda e la donna è sottomessa alla volontà indiscutibile, che si nutre di sottomissioni silenziose e quotidiane. 

Per fortuna, la vita di noi donne nel tempo è cambiata, e anche se vi è un’apparente parità, abbiamo raggiunto risultati importanti, ma molto ancora c’è da fare.

La condizione di sottomissione della donna è molto più complicata nel caso di donne immigrate.

Questo perché si può ipotizzare che le relazioni familiari ed affettive dei soggetti immigrati sia caratterizzata da situazioni di particolare sofferenza, riconducibile non solo alla situazione di precarietà della loro condizione di vita, ma sopratutto per i conflittuali derivanti dall’esposizione a modelli culturali assai diversi da quelli della cultura di provenienza, che si riverberano inevitabilmente sulle dinamiche interfamiliari.

Per le società diverse dalla nostra, la contaminazione culturale dovuta all’esposizione a nuovi e impensabili  modelli familiari, è così dirompente e distruttiva da essere accompagnata spesso da episodi di violenza che si concludono con la morte delle componenti femminili del gruppo.

Sono proprio le donne immigrate ad andare incontro al cambiamento, poiché all’interno di queste minoranze etniche sono i soggetti che vengono più penalizzate dalla società, poiché viene loro imposto uno stile di vita fatto di segregazioni, di divieti, di “divise d’ordinanza”, di regole ferree da rispettare ad ogni costo.

La presa di consapevolezza, da parte di queste donne, dell’esistenza di un modo diverso di vivere, fatto di possibili libertà sino ad allora sconosciute…incarnate dal modo di vita all’occidentale, comporta il tentativo di allontanarsi dagli schemi culturali imposti.

Pochi sanno che a Messina è attivo dal 1996, presso la Sezione di Scienze Forensi del Policlinico Universitario, un Osservatorio degli Omicidi Familiari, diretto dalla Prof.ssa Gaetana Russo, docente di Criminologia presso la stessa sezione.

In questo dipartimento vengono attivamente realizzate delle ricerche scientifiche sugli omicidi che si realizzano all’interno del nucleo familiare in Italia.

Da una ricerca empirica a cui ho personalmente partecipato , sugli “Omicidi familiari tra migranti” presentata al Congresso Nazionale della Società Italiana di Criminologia nel 2009, tenutosi a San Marino nel 2009,  è emerso nell’arco di tempo che va dal 1996 al 2009, che i migranti che uccidono con maggior frequenza all’interno dell’ambiente domestico sono di nazionalità Rumena, Albanese e Marocchina, con una sovrarappresentazione dei soggetti di cittadinanza rumena.

Mi soffermerò sopratutto sugli omicidi commessi da uomini immigrati, poiché gli omicidi familiari sono commessi prevalentemente da maschi ai danni di una vittima di sesso femminile.

Su 168 autori stranieri, i maschi sono 123, pari al 73.2%, e le vittime di sesso femminile sono 123 su 172 totali.

Questi “uomini” autori di omicidio familiare provengono in prevalenza dall’Africa (sopratutto Marocco) e dall’Est Europeo (sopratutto Romania e Albania).

Le vittime sono sopratutto la moglie (36.1%), e frequentemente la patner affettiva.

Nella metà dei casi, l’atto omicidiario è connesso ad una separazione, minacciata o in atto, sopratutto se l’omicida risiede nelle regioni del centro nord, è un africano, e la vittima è di origine italiana.

Questo è indice di una maggiore difficoltà da parte di questi immigrati, quasi sempre di religione musulmana, ad accettare la separazione.

Probabilmente dipende dalla realtà culturale della famiglia islamica e dal ruolo che l’uomo e la donna ricoprono in seno ad essa.

Inoltre conferma la scarsa compatibilità tra modelli culturali assai diversi, sopratutto per quanto attiene al ruolo della donna nella famiglia e della società, che esplode con drammaticità in quelle regioni in cui la donna gode di una maggiore autonomia economica.

Infatti, sono sopratutto maschi separati ad uccidere, il che ci fa pensare che la separazione costituisce un importante fattore di rischio di omicidio familiare.

Un’altro contesto in cui i maschi immigrati uccidono frequentemente è quello di conflitto familiare, in particolare, quando sono coniugati, di etnia asiatica, e risiedono in percentuale più alta al sud e nelle isole.

In questo caso, le vittime, sono anch’esse immigrate, e sono fratelli, la moglie i figli.

In queste regioni la maggiore frequenza di conflittualità familiare è attribuibile alla circostanza che i componenti del nucleo familiare, ancorché in disaccordo, sono costretti alla convivenza, anche a  causa di una minore autonomia economica, per la difficile situazione del mercato del lavoro e dell’welfare in generale.

Il perdurante conflitto familiare, ci fa pensare ad una vita familiare attraversata da molte tensioni, da dimensioni esistenziali sofferte sino ai limiti della sopportabilità.

Per quanto riguarda le modalità dell’omicidio, sono spesso particolarmente cruente, frequente per asfissia (sopratutto africani), ma è molto usata anche l’arma da taglio, in particolare fra gli asiatici.

L’autore straniero commette in netta prevalenza un omicidio intraetnico.

Barbagli a tal proposito ci fa notare che gli stranieri sono spesso vittime dei loro connazionali, ci si uccide all’interno dei propri gruppi etnici e fra persone della stessa nazionalità.

Gli italiani uccidono gli italiani; le persone di origine straniera ammazzano soprattutto propri connazionali.

Di 10 omicidi 6  commessi da immigrati sono omicidi etnici o familiari cioè avvengono tra persone della stessa etnia d’origine o tra persone dello stesso nucleo familiare.

Sono soprattutto le donne le vittime.
La violenza familiare non è più un ordinario fatto privato, ma va inteso come un atto di violenza pubblica e sociale poiché mina quella cultura della libertà femminile sino ad ora conquistata. Questo, oggi, è inaccettabile.