DI SERAFINA IGNOTO
Quel giorno mio padre venne a svegliarmi nel cuore della notte. Mi disse di far presto, di vestirmi e preparare una piccola borsa da viaggio. Pensavo che stesse sognando, così lo invitai a tornarsene a letto, mentre mi rigiravo premendo il cuscino sulla testa.
– Non capisci, Samir – mi disse con decisione, tirandomi fuori dalle coperte – Questa notte tu parti -.
Sentii mia madre di là e un mormorio di grida soffocate.
Mi alzai e andai in cucina. C’era mia madre seduta al tavolo, che piangeva sommessamente, e Habib, il padre del mio amico Karim. In piedi, accanto a mia madre, mia sorellina Jasmine. Aveva gli occhi assonnati e continuava a strofinarli con le nocche, i piedini paffuti nudi sul pavimento. Posò la testa sulle gambe della mamma, protestando affinché la prendesse in braccio. Il pianto di mia madre si fece disperato e per consolarsi prese Jasmine sulle ginocchia, stringendola a sé. Mio padre e il signor Habib discutevano in un angolo sottovoce, in modo concitato, i volti tesi, duri.
Misi qualche indumento dentro una borsa di tela. Indossai il mio braccialetto e tornai in cucina. Il signor Habib disse che era meglio iniziare ad andare. Mia madre venne ad abbracciarmi. Intanto Jasmine, che non le aveva mollato la veste, mi si aggrappò alle gambe. Disse qualcosa nel linguaggio ancora infantile, incomprensibile, e mi sorrise. È questa la cosa che voglio ricordare di casa mia: Jasmine che sorride assonnata.
Mio padre dovette staccarmi dalle braccia di mia madre.
Una lacrima furtiva gli scivolò sul viso. La spazzò via col dorso della mano, frettolosamente.
Passammo dalla casa del signor Habib. Anche Karim era vestito e teneva in mano una borsa simile alla mia. Ci guardammo e intuimmo le decisioni che i nostri padri avevano preso per noi.
Ci avviammo sulla strada che dal villaggio conduce a uno dei porti più importanti del mio Paese. Il porto aveva un’aria surreale, come un urlo soffocato. All’apparenza era deserto, ma negli anfratti fra gli alberi e nei corridoi fra le costruzioni c’era un brulichio silenzioso di corpi scuri. Il signor Habib si incontrò con un uomo, li vidi parlare per qualche istante, poi fece cenno a mio padre di raggiungerlo.
– Voi rimanete qui e non fiatate -.
Zitti li osservavamo. Mio padre estrasse dalla tasca un fazzoletto appallottolato, tirò fuori parecchi dinari in banconote che consegnò allo sconosciuto. Il padre di Karim fece lo stesso. Con un gesto famelico lo sconosciuto prese il bottino: valeva una fortuna nel nostro Paese. A quel punto fece un cenno furtivo con la mano e col mento indicò il quarto molo. Era distante da noi, ma sicuramente era al riparo da occhi indiscreti. Mio padre e il signor Habib quasi ci spinsero fino al punto stabilito.
Fu allora che mi si fermò il cuore. Vidi un guscio di legno che galleggiava nell’oscurità e un altro uomo che impugnava le cime per tenere la barca accostata più possibile alla banchina. Con cenni convulsi ci invitò a salire a bordo. Non disse una parola. Allungai la gamba per balzare dentro, ma in quell’istante mio padre mi afferrò. Mi abbracciò come non aveva mai fatto nei miei quattordici anni di vita. Sentii il suo cuore battere e il sale delle sue lacrime mi scivolò in bocca. Poi mi respinse con decisione: – Abbi cura di te, figlio mio -.
Eravamo in tre, io Karim e l’altro uomo. L’uomo ci sistemò sul fondo della barca e ci coprì con le reti. Un tanfo putrido, di pesce morto, mi si appiccicò addosso. Iniziò a remare. Potevo sentire l’affondo dei remi sul pelo delle onde. Il tempo era sospeso. Non so dire da quanto fossimo in mare, ma improvvisamente sentimmo il borbottio di un motore. Dovevo orinare, rimasi immobile, attento a non muovere un muscolo, mentre il liquido caldo mi colava fra le gambe. Un fischio breve. Un secondo più lungo. Pausa. Un terzo breve. Il nostro uomo rispose con tre fischi brevissimi. Accese il motore e lo mise in folle, sollevò le reti per farci uscire e ci disse che dovevamo tenere il timone sempre in quella posizione, senza mai cambiarla, se non volevamo perderci.
L’altra imbarcazione si avvicinò alla nostra e l’uomo passò su quella. Si allontanarono rapidamente. Il buio era dappertutto, nemmeno le stelle a salutarci, ma riuscii a vedere il terrore sul volto di Karim. Afferrai il timone e feci come mi aveva detto. Portai il motore al massimo. Il freddo penetrava nelle ossa mentre il sale degli spruzzi feriva il viso. Pensai che il mare era fatto con le lacrime della nostalgia, il dolore di migliaia di uomini che non erano più tornati. Il nostro guscio sbatteva sopra ogni onda, sollevandoci in alto e facendoci precipitare a ogni suo capriccio. Karim vomitò fuori, poggiato al bordo. Dopo, lo sentii piangere stremato. Eravamo cresciuti insieme, nella stessa strada e frequentavamo la stessa scuola. Cercai di fargli coraggio, ce l’avremmo fatta, saremmo arrivati. È lunga la notte quando sei solo sotto il cielo, e galleggi sul ciglio dei flutti. Dal sonno volevo chiudere gli occhi, ma avevo paura di addormentarmi. Solo per un breve istante cedetti e chiusi le palpebre. Rividi il sorriso di Jasmine. Li riaprii con forza. Dai confini del mondo, sulla linea dell’orizzonte, vidi un chiarore leggero. Il cielo si accese di un pallido arancio, fra le nuvole posate sul mare. Stava albeggiando. Karim dormiva ancora rannicchiato, riparandosi con le mani dal freddo pungente.
Il sole si alzò velocemente e nacque il giorno. Il vento non dava tregua e il sale feriva le mani. Sanguinavo, ma non mollai la presa sul timone.
Fu in quel momento che sentii la parabola discendente del motore. Da lì a pochi minuti si spense definitivamente.
Mi sedetti e iniziai a piangere per la prima volta. Quell’improvviso silenzio svegliò Karim che mi chiese spaventato dove eravamo. Non lo sapevo, non avevo risposte per Karim. Non ne avevo per me. Ci alzammo in piedi, il mio amico si mise sulla punta del guscio e iniziò a urlare. Attorno non c’era nessuno. Onde e vento. La barca senza più direzione si rigirava in balia della corrente e del vento. Cercavo di concentrarmi per ricordare la direzione, ma non avevo punti di riferimento. Stavamo facendo, io e Karim, un giro sulla giostra più crudele. Il gettone l’avevano pagato i nostri padri. Un’onda più forte ci sollevò di alcuni metri e finimmo dritti nella gola d’acqua. Buio. Sale. Paura. Chiusi istintivamente gli occhi per proteggermi e li riaprii dentro quegli abissi. Mi tenevo con tutte le forze alla barra e urlai a Karim di aggrapparsi e non mollare. Uscimmo dall’abisso. Gli occhi bruciavano, la schiuma ci attraversava i vestiti. Battevo i denti per il freddo. Avevo sete e istintivamente mi leccavo la faccia spingendo la lingua attorno alla bocca.
Fu in quel momento che Karim vide una nave alle nostre spalle. Si alzò in piedi di scatto e sbracciandosi iniziò a gridare. Il movimento brusco ci fece rischiare di finire in acqua. Assestammo l’equilibrio, mi misi in piedi anch’io a braccia alzate, urlando con tutto il fiato che avevo.
Urlammo ripetutamente, a lungo, fino a non avere più voce. Ci dimenavamo, agitando le braccia. Eravamo un puntino in mezzo al mare. Ma la nave fischiò. Fischiò la sirena e, invertendo la rotta, si diresse verso di noi. Eravamo salvi! Ci abbracciammo, saltellando con cautela.
Ci trasbordarono sulla nave. Ricordo le braccia possenti dell’uomo che ci raccolse, la sua presa sicura.
Una volta su, ci diedero dei vestiti asciutti, dell’acqua, del cibo e delle coperte. Dormii fino all’arrivo al porto di destinazione. In Italia.
Le cime dei palazzi erano la nostra àncora.
Nascemmo di nuovo, quel mattino.