L’idea vagava tra i miei pensieri già da tempo, ogni tanto galleggiava, altre volte affondava negli abissi della mente, altre ancora veniva in superficie prepotentemente facendosi largo in mezzo ad ogni altro pensiero.
La scelta di trattare un argomento tanto delicato quanto scomodo implica un impegno non indifferente, ma il tuo incontro ha cancellato ogni mio dubbio.
Raccontiamo insieme la tua storia, raccontiamo ciò che molte altre ragazze non hanno la forza di denunciare, raccontiamo ciò che neanche tu hai avuto il coraggio di denunciare a tempo debito, raccontiamo ciò che accade anche nelle migliori famiglie, raccontiamo verità che troppe volte si sono tenute nascoste, raccontiamo una storia che potrebbe essere quella di ogni donna.
Non vorrei farti alcuna domanda specifica, racconta tutto ciò che ti senti di raccontare:
“La mia storia non è diversa da quella di molte altre, e anche io come troppe donne, non ho avuto il coraggio di denunciare ciò che accaduto”.
Troppo piccola, troppo ingenua, assolutamente incapace di capire ciò che stava accadendo, incapace di raccontare.
“Non riuscivo a credere che stava accadendo, non riuscivo a credere che quelle mani stavano scivolando dentro i miei pantaloni, sotto la mia maglietta.
La laurea di una cugina molto vicina è un evento emozionante agli occhi di una bambina di 12 anni, un evento che avrebbe riunito la famiglia, parenti da tutt’Italia sarebbero arrivati a Messina per festeggiare il lieto evento. Quale migliore occasione per stare tutti insieme?
«Gli zii dormiranno a casa nostra, li ospitiamo per una settimana» è così che ho saputo la notizia.
Ero entusiasta, si trattava di familiari che non vedevo mai ai quali ero molto legata: la classica famiglia siciliana dal numero di parenti illimitato, la classica famiglia che costituisce l’affetto più importante di tutta una vita, così è anche la mia.
Stava iniziando l’estate e per me, la più piccola, le vacanze iniziavano prima rispetto agli altri, così ero io a fare compagnia agli zii nei momenti in cui tutti erano a lavoro. Filmini, cassette, foto d’infanzia, le ore trascorrevano serenamente insieme a loro, ridendo e scherzando, e poi, finalmente, arrivava l’ora del pranzo, i miei genitori rientravano e tutti potevamo passare felicemente del tempo insieme.
Finché, un bel giorno, mia zia decide di uscire per fare una passeggiata: il sole, le temperature già elevate, gli uccellini che cinguettano, la gente sorridente, al Nord queste cose non accadono con tanta facilità.
E così io resto in casa con mio zio. Lui in una stanza a guardare la tv, io immersa nei miei infiniti quaderni, quaderni che racchiudono ogni mio pensiero, ogni mia emozione.
La prima volta che ho deciso di tenere un diario avevo nove anni e da quel momento non ho mai smesso di conservare in esso ogni mio ricordo più importante.
Quella volta però non ci sono riuscita.
Scrivevo, scrivevo sempre, ma ignoravo le mie emozioni, ignoravo i miei stati d’animo. La prima volta che sono riuscita a raccontare quello che era successo è stato tre giorni dopo, poche righe scritte con una grafia poco comprensibile dovuta ad un tremolio troppo forte della mano.
«Qualche giorno fa sono venuti gli zii, hanno dormito da noi, ora sono tornati a Torino. Lo zio mi ha messo le mani addosso, mi ha baciata… Mi sono sentita male. Lo faceva quando eravamo soli, anche se io cercavo di evitarlo in ogni modo. Se ci penso mi viene da vomitare. Non voglio che torni mai più. Mi vergogno.»”
Poche righe che nascondevano un dolore troppo grande, troppo grande per essere raccontato anche tra le pagine di un diario che mai nessuno avrebbe letto. Una vergogna troppo forte per parlarne con qualcuno.
“Entrava silenzioso in camera mia, si avvicinava e mi abbracciava.
«Piccola mi dai un bacio?»
E questo era solo l’inizio. Poi le mani scivolavano sul mio corpo, entravano sotto i miei vestiti. Nessuna violenza, nessuna forzatura, io ero semplicemente pietrificata, incapace di reagire, incapace di capire, incapace di credere, incapace di realizzare. Poi lui usciva dalla stanza, e io scappavo in bagno”.
Cercavi di lavarti, sperando che quello sporco passasse, e strofinavi, strofinavi sempre più forte.
Un giorno passerà.
Strofinavi tanto forte che iniziava ad uscire sangue dalle cicatrici, quelle cicatrici che troppe volte sono state aperte, senza mai avere il tempo di rimarginarsi del tutto. Ma lo sporco non è mai andato via. Non è fuori, è dentro che devi pulire. E quell’acqua che avrebbe dovuto aiutarti a stare meglio non è servita ad altro che a far sentire un gran rumore. Un rumore così assordante che tutto rimbombava intorno a te. Come se un grande martello ti stesse colpendo.
“Sentire quelle mani grandi, ruvide e sudate, sulla mia pelle.”
Sei diversa. Sei diversa per quanto questo non si veda. Sei diversa perché il tuo cuore è diverso. E il sangue scorre, sgorga da quella ferita che ha lasciato un gran vuoto dentro te. E adesso quel coltello che per mesi e mesi ha continuato a girare nel tuo cuore non c’è più. Ha lasciato solo un enorme vuoto.
“I giorni scorrevano e lui trovava sempre il modo di rimanere solo con me. Non ricordo neanche più quante volte sia successo. Ti starai domandando perché non abbia fatto niente per fermarlo, perché, pur sapendo a cosa andavo incontro, non ho cercato di cambiare le cose. Ci ho provato, ho provato ad evitarlo, ho provato a non restare più sola con lui, ma non ci sono riuscita. Ogni volta che varcava la soglia della mia stanza io restavo immobile, sentivo i suoi passi e sapevo cosa sarebbe successo.
Non ho mai dubitato neanche per un secondo che lui non mi volesse bene sul serio, non ho mai pensato che volesse farmi del male, l’unica cosa che continuamente martellava i miei pensieri era il motivo del suo comportamento.”
Questa è la differenza tra una violenza subita da un estraneo e una violenza subita da un familiare. Un familiare non usa la violenza per ottenere i suoi scopi, un familiare usa la dolcezza, usa l’affetto, usa un metodo ancora più subdolo e perverso per raggiungere il suo piacere.
“La mia reazione non è stata immediata. Il cambiamento è stato evidente solo nei giorni successivi alla partenza dei miei zii. Intrattabile, inavvicinabile, assolutamente priva di un’espansività che tanto mi caratterizzava. È stato allora che mia madre ha capito. Poche domande e nessuna risposta, soltanto una breve frase è uscita dalle mie labbra «Non lo dire a nessuno, neanche a papà». Mi vergognavo, mi vergognavo di parlarne, mi vergognavo quando qualcuno mi guardava, avevo paura che si potesse capire cosa era successo. Mi sentivo sporca.”
Perché hai scelto di non parlarne con nessuno? Perché non hai denunciato tutto ai carabinieri?
“Non l’ho fatto perché non ci sono riuscita. L’idea di raccontare a qualcuno quello che avevo vissuto non era minimamente contemplata nella mia testa, l’idea che qualcuno potesse farmi domande su quello che avevo subito su quello che era successo mi faceva sentire male. Volevo solo dimenticare, andare avanti e rimuovere ogni ricordo dalla mia testa. Ricominciare da capo, cancellare.
È così che all’età di 12 anni ho smesso di essere una bambina, ho smesso di credere che qualcuno, dall’alto, si prenda cura di noi e ci protegga, ho capito che l’unica persona su cui posso contare sono io.
Ogni tanto mia madre cercava di pormi qualche domanda, cercava di saperne di più, ma non ho mai risposto. La prima volta che sono riuscita a parlare con qualcuno di quello che è successo è stato all’età di 18 anni, e da lì la strada è stata in discesa.
Ho ignorato per anni un dolore che avrei dovuto condividere, un dolore che avrei dovuto esternare invece di provare a sopprimere. Mi sono sempre sentita diversa, diversa dai miei coetanei, diversa perché io avevo smesso di essere una bambina, diversa perché portavo un peso nel cuore che nessuno poteva immaginare, diversa perché i problemi dei miei amici mi sembrano stupidi.
Però non ho mai perso la mia gioia di vivere, non ho mai perso la voglia di andare avanti, perché la vita, nonostante tutto resta sempre un’esperienza meravigliosa.”
Non hai mai provato rabbia nei confronti di tuo zio?
“Rabbia? No, non ho mai provato rabbia, non ce l’ho mai avuta con lui per quello che ha fatto. Sì, sicuramente ha commesso qualcosa di terribile, qualcosa che non dovrebbe neanche essere concepita dalla mente umana. Ma il punto è proprio questo. Non c’è stata mai cattiveria nei suoi gesti, non c’è mai stata alcuna imposizione, erano semplicemente le azioni di una persona malata”
Non hai mai pensato che non denunciando l’episodio lui avrebbe potuto fare la stessa cosa a molte altre ragazze?
“No, inizialmente non ci ho pensato, in quei momenti l’unica cosa che importava era dimenticare tutto. Con il passare degli anni però l’ipotesi che potesse accadere è venuta a galla: no, non credo che l’abbia più rifatto, il suo interesse non era farmi del male, il suo interesse era provare piacere con una persona a cui voleva bene. Non sono sicura di riuscire a spiegare esattamente cosa penso.
Non l’ho mai ritenuto una persona cattiva, come ho già detto, semplicemente una persona malata, una persona che non si rendeva conto di ciò che stava facendo”
C’è qualcosa che ti senti di dire alle ragazze che hanno vissuto la tua stessa terribile esperienza?
“Ci sarebbero tante cose da dire, ma probabilmente la più importante è che la vita è un dono meraviglioso e non dobbiamo permettere a nessuno di rovinarcela. Bisogna vivere attimo per attimo, contando sulle proprie forze e cercando di costruirsi una personalità con le proprie mani, le brutte esperienze sono da mettere in conto, ma senza di queste probabilmente non si riuscirebbe a godere delle più piccole gioie della vita”
Grazie per la tua testimonianza