I ponte di Messina: un’opera diseducativa

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Puntuale come un incubo quando si è mangiato troppo e male, anche sotto questo governo si ripropone il ponte sullo stretto di Messina, antica bandiera sventolata dai demagoghi di ogni segno e colore. Stavolta lo si fa brandendo “nuovi studi” che renderebbero oggi fattibile un’opera di cui si parla dal tempo dei romani e riportando tutto a una questione tecnologica. Dimenticando che la vera domanda non è se il ponte sia realizzabile, ma se le infrastrutture debbono guidare lo sviluppo, come dopo una guerra, o assecondarlo, come vorrebbe la logica della transizione energetica.

Al mondo non è mai stato costruito un ponte a campata unica più lungo di quello di Akashi (in Giappone): quello di Messina sarà lungo il doppio e ancora non si comprende bene utilizzando quali materiali. Ma piuttosto il problema è il luogo, la nostra regione di maggior rischio sismico, segnata da una lunga e profonda spaccatura che passa proprio sotto il futuro ponte. Una faglia che divide due regioni che si allontanano e si sollevano in maniera differenziale, nel corridoio crostale più ballerino che ci sia in Italia. Non che non si possa procedere in queste condizioni, ma il succitato ponte di Akashi fu spostato dopo il terribile terremoto del 1995 e parzialmente riprogettato, perché non si erano previsti sismi di quella magnitudo a Kobe. Ecco perché il ponte sullo stretto deve essere commisurato almeno a magnitudo 7,5 Richter, non potendo escludere terremoti più potenti.

Dunque riusciremo senz’altro a realizzare un ponte così robusto, in grado di reggere perfino a un’esplosione nucleare, ma, nel caso di un terremoto tremendo come quello del 1908 (che arriverà, è solo questione di quando), finirebbe per unire due cimiteri, in quanto le province di Reggio e di Messina hanno solo il 25% di costruzioni antisismiche. Non bastassero i terremoti ci si mettono anche le frane, in particolare gli scivolamenti gravitativi: grandi superfici di distacco che possono arrivare fino a chilometri di profondità e minacciare qualsiasi opera e che sono ben noti sul versante calabrese. Come sono ben note in superficie le frane del messinese (Giampilieri). Ha senso sclerotizzare quel ben noto “sfasciume pendulo sul mare” con un oggetto rigido di 166.000 tonnellate che, oltretutto, comporterebbe movimenti di terra colossali, apertura di cave, prelievi di inerti, livellamento di colline, opere di cemento armato al contorno, cioè esattamente tutto quello che non dovresti fare nell’Italia record europeo di frane (620.000 su 750.000 nel continente intero)?

Ma a chi gioverebbe il ponte? Certamente poco a quei messinesi e reggini che si spostano ogni giorno. Non è che il ponte nasce nel centro di Reggio e finisce nel centro di Messina: gli imbocchi saranno a Cannitello e a Ganzirri, così che, chi prima ci metteva 30’, domani ci metterà il doppio, dovendo prendere un’auto che prima non usava, uscire dalla sua città, attraversare e rientrare poi nell’altra, cercando pure parcheggio. Il ponte finirebbe per aumentare il traffico su gomma. E se ci fosse pure la ferrovia (fatto sul quale si attendono rassicurazioni) andrebbe anche peggio, visto che i treni non possono superare pendenze appena pronunciate, cosa che comporterebbe avere imbocchi ancora più lontani.

Se si vogliono rispettare le leggi europee di finanziamento, il pedaggio sarebbe caro, ricordando che tutti i grandi attraversamenti del mondo, dal Golden Gate al tunnel sotto la Manica o costano parecchio oppure sono in deficit (e indovinate chi paga, nel caso). Sempre ammesso che le faraoniche previsioni di attraversamento siano rispettate: oggi l’attraversamento medio si attesta attorni ai 10.000 veicoli/giorno, come potrebbe domani arrivare a 100.000 resta un mistero, visto che solo un pazzo scenderebbe da Berlino a Palermo in auto e non con gli aerei low cost o con le auto caricate in nave. E che, in media, un siciliano esce dalla propria isola solo una volta all’anno. E non perché manchi il ponte.

Infine l’incancellabile sfregio al paesaggio meraviglioso dello stretto, al mito di Scilla e Cariddi, al parco letterario, alla natura. Come facciamo a essere così arroganti da imporre a figli e nipoti un’opera che potrebbero rifiutare? Quando con una minima parte di quei denari si può risistemare in maniera ecologicamente sostenibile il traffico marittimo dello stretto, con navi a rinnovabili e con il disegno di nuovi scali. Una follia priva di senso geologico, naturalistico e culturale, una delirio onanistico di una setta di tecnocrati incapaci di convivere armonicamente col mondo che ci circonda. E, soprattutto, un’opera diseducativa, inutile e potenzialmente dannosa.

Mario Tozzi

 

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