di Rino Giacalone
Oggi è la classica giornata della prova del nove. Per farci capire quanto parolaia e scenografica possa essere l’antimafia. Soprattutto quella “recitata” dai politici, dai sindaci, dai consigli comunali. Oggi doveva essere una giornata da sottolineare con i ricordi magari per firmare un nuovo patto. E invece silenzio. Solo silenzi.
Ci sono un morto ed un uomo sfuggito ai Kalashnikov che restano completamente dimenticati. L’ucciso si chiamava Alberto Giacomelli, fu ammazzato il 14 settembre 1988, 25 anni addietro. A sfuggire alla potente arma impugnata dai più spietati killer e capi mafia siciliani fu l’allora dirigente del commissariato di Polizia di Mazara, Rino Germanà, era il 14 settembre 1992.
Niente celebrazioni, niente ricordi per loro, perché essenzialmente le loro vicende sono attuali, attualissime, parlarne significa riaprire pubblicamente armadi che si vogliono far restare chiusi.
Giacomelli era andato in pensione da qualche tempo quando fu ammazzato nelle campagne trapanesi di Locogrande. La sua morte al solito per anni è stata mascariata, sporcata da storie bugiarde, infamanti, ancora oggi che il delitto è stato spiegato, e ci sono i condannati, questi clamorosi falsi sul perché dell’omicidio continuano a girare. Nel 1988 divenne definitiva la confisca di una proprietà di don Tano Riina, fratello del padrino don Totò u curtu. A decidere in primo grado quella confisca anni prima era stato il Tribunale presieduto dal giudice Giacomelli.Nel 1988 raccontarono i collaboratori di giustizia, a cominciare dall’ex boss Ciccio Milazzo di Paceco, Riina mandò a dire alle famiglie trapanesi che bisognava cercare un giudice da ammazzare, “uno qualsiasi”, poi d’improvviso Riina si ricordò di quel giudice che aveva confiscato la casa al fratello. Alberto Giacomelli divenne l’obiettivo da abbattere e così avvenne. La mafia fece anche di più, consegnò alla magistratura una banda di piccoli delinquentelli, un mezzo pentito, come se quell’omicidio fosse roba da balordi. Sono dovuti passare tantissimi anni per arrivare alla verità. Sono trascorsi decenni perché Alberto Giacomelli venisse ricordato con l’intitolazione di una piazzetta, quella nei pressi del Palazzo di Giustizia, addirittura la targa dovette essere rifatta perché quando fu scoperta con sgomento i giudici presenti notarono che il loro collega veniva ricordato come vittima della criminalità organizzata e non della mafia. Oggi a 25 anni dal delitto il ricordo è stato solo dei familiari e dei giudici. E basta. Pochi giorni addietro il Consiglio comunale si batteva il petto e faceva mea culpa per il ritardo di otto nel conferimento della cittadinanza onoraria all’ex prefetto Fulvio Sodano che però ha rifiutato. Tante ma nemmeno molto accese e forse sincere parole contro la mafia e i suoi complici. Se fossero stati sinceri oggi doveva esserci il ricordo per quel giudice “qualsiasi” che la mafia volle uccidere per mandare un segnale.
Ventuno anni addietro stesso giorno, sempre 14 settembre. Rino Germanà che da capo della Criminalpol siciliana si era ritrovato a fare una improvvisa retromarcia nella carriera in Polizia tornando a fare il commissario a Mazara del Vallo. Sul lungomare Tonnarella di Mazara fu inseguito e si ritrovò nel mirino di due pericolosi killer Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, erano su di un’auto guidata da Matteo Messina Denaro. Doveva morire Germanà che si stava occupando dei rapporti tra mafia e politica, che indagava sui soldi sporchi della mafia, sulle banche controllate da Cosa nostra e dove i Messina Denaro avevano riciclato e riciclavano i loro milioni sporchi del sangue di tanti morti ammazzati. L’arma si inceppò, i killer continuarono a sparare fin quando capirono che Germanà non poteva essere ucciso. Ci pensò il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, oggi imputato nel processo per la cosidetta trattativa, se lo chiamò a Roma, lo abbracciò davanti alle telecamere, e poi….Germanà si ritrovò a dirigere il posto di Polizia dell’aeroporto di Bologna, il dirigente della scientifica, sempre stando lontano dalla Sicilia, lui, memoria storia delle indagini antimafia in Sicilia e a Trapani, era sopravvissuto ai killer, ma per lo Stato era come se fosse morto sotto quei colpi. Ci volle un articolo a pagina piena su L’Unità firmato dalla giornalista Sandra Amurri a far diventare pubblica la storia di quel poliziotto, che riprese quella carriera che gli era stata anche bloccata, oggi è questore a Piacenza, dopo essere stato questore a Forlì.
Anche questo episodio è dimenticato, non celebrato, non se lo sono nemmeno ricordati i tanti politci che a convenienza si sono fatti fare le foto assieme a Germanà. Non l’hanno dimenticato gli amici, gli allievi di Germanà. Quell’agguato oggi è di grandissima attualità e non solo perché spunta fuori il nome di Mancino. Ma perché quelle indagini di Germanà sono ancora qui, vive, pulsano, alcune sono finite dentro processi, ci sono state condanne eccellenti per mafiosi e colletti bianchi. Venerdì prossimo a Palermo ci sarà l’ultima udienza del processo contro il senatore D’Alì, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, indicato come uno dei maggiori “favoreggiatori” dei Messina Denaro, padre e figlio, don Ciccio e don Matteo, suoi campieri. D’Alì è a capo di una famosa famiglia di banchieri, loro era la Banca Sicula assorbita negli anni ’90 dalla Banca Commerciale. Germanà indagava sulla Banca Sicula. Di recente al processo per il delitto Rostagno è stato depositato un verbale dove un faccendiere dei servizi segreti Francesco Elmo accenna proprio agli affari segreti della Banca Sicula, a un trasferimento di fondi segreti da Trapani sino in Svizzera. Quando un giorno Germanà fu sentito in un processo rispose al pm che gli fece una specifica domanda, “indagavo sulla banca Sicula e poi…mi hanno sparato”. Il pm chiese se quella sequenza secondo lui non era casuale, “no signor pubblico ministero, non lo so, so solo che indagavo sulla Banca Sicula e poi mi hanno sparato”.