In un volume del giornalista Carlo Gnetti, la vicenda di suo fratello Paolo dalle prime manifestazioni del disagio mentale agli ultimi giorni della sua vita. E alle sue spalle un paese che fatica a reggere il passo
Ci sono storie individuali che, pur nella loro singolarità, raccontano pezzi di una Storia più grande e più importante. E ci sono biografie, che pur nella loro ordinaria drammaticità, incarnano i flussi e i riflussi della vita civile e sociale di un Paese. In questa categoria rientra il volume del giornalista Carlo Gnetti, da poco pubblicato per le edizioni Ediesse, “Il bambino con le braccia larghe” (pp. 204, euro 10). Protagonista del libro è Paolo, fratello di Carlo, che all’età di dieci anni inizia a manifestare le prime “stranezze” e che, col passare degli anni, rimane intrappolato in un disagio mentale che le vicissitudini dell’esistenza, il progressivo scollamento dalla vita sociale e l’uso massiccio di psicofarmaci renderanno via via più profondo. Alle spalle di Paolo e della sua sofferenza un paese che passa attraverso la rivoluzionaria esperienza basagliana e la legge 180 per approdare, dopo tanti giri e tante speranze, a un modello di assistenza e cura che, nell’esperienza di Paolo, somiglia pericolosamente ai vecchi manicomi.
Come è nata l’idea di raccontare la vicenda di suo fratello Paolo in un volume?
Il libro si è quasi scritto da solo. Raccontare questa storia era per me un’esigenza incontenibile: nell’ultimo periodo della vita di Paolo, quando ormai avevo capito che la sua strada era segnata e non sarebbe riuscito a sopravvivere a cure di psicofarmaci così pesanti, avevo già cominciato a tenere una sorta di diario per evitare che alcuni ricordi potessero smarrirsi. Quindi non ho dovuto fare altro che aggiungere il capitolo finale sulla sua morte. Poi quando il direttore della collana “Carta bianca”, Angelo Ferracuti, ha letto il manoscritto mi ha suggerito di approfondire alcune parti, tra cui quella della comparsa della malattia. Allora sono tornato da mia madre e abbiamo trascorso dei pomeriggi a parlare, perché io all’epoca avevo solo sette anni ed ero troppo piccolo per ricordare la genesi della malattia.
Sullo sfondo della vicenda personale di Paolo si apre uno spaccato di storia italiana dagli anni Sessanta ai primi dieci anni di questo secolo. Cosa è avvenuto in questo periodo?
La storia di mio fratello è esemplare di una certa evoluzione della psichiatria. Poalo è stato tra i pochi fortunati, qui a Roma, a poter vivere un’esperienza alternativa all’ospedale psichiatrico dopo l’approvazione della legge Basaglia. Mi riferisco alla comunità di Primavalle che però, in quanto pensata come un centro di recupero e non come una struttura di lungodegenza, doveva garantire il turn over degli ospiti. La via crucis di mio fratello è cominciata proprio dopo l’espulsione da questo meccanismo. Ma la storia di Paolo è stata esemplare anche dal punto di vista psichiatrico vero e proprio: ha cominciato con la psicoanalisi e la terapia familiare in tempi in cui la psichiatria non prevedeva alcun approccio psicologico o terapeutico, ma solo un approccio istituzionale di ricovero oppure di trattamento a base di psicofarmaci e elettroshock. Dopo l’approvazione della legge Basaglia, però, Paolo ha incontrato due scuole psichiatriche molto diverse tra loro: quella di ispirazione basagliana e anti-istituzionale che privilegia l’approccio sociale alla malattia e quella psichiatrica tradizionale. Ma la sua è stata un’esperienza del tutto inconsapevole, perché è passato attraverso queste vicende andando avanti per la sua strada: una strada sostanzialmente di grande sofferenza e di grande dolore.
Alle spalle della sua storia di sofferenza si intravedono una serie di luoghi e di persone. Il manicomio, la comunità terapeutica, la casa famiglia fino alle strutture private in cui Paolo trascorre gli ultimi periodi della sua vita.
Sì, sembra quasi un cerchio che si chiude: si parte dal manicomio, poi si sperimentano altre vie per finire, negli ultimi anni della sua vita, in delle specie di manicomi più piccoli: è il caso di Colle Cesarano, una clinica convenzionata che al suo interno non si differenzia in nulla dal vecchio manicomio: le stesse camerate, lo stesso odore di disinfettante, lo stesso tipo di medici e infermieri e lo stesso trattamento. E soprattutto una struttura chiusa.
In genere siamo portati a pensare che questo tipo di strutture siano del tutto superate…
Si tratta di strutture più nascoste rispetto a prima. Il Santa Maria della Pietà, per esempio, sorgeva nel cuore della città e in qualche modo ne faceva parte integrante. Erano posti chiusi, ma non completamente isolati dal contesto. Ora, invece, si tratta di luoghi decentrati, più tranquilli e più isolati. Insomma luoghi meno conosciuti, che hanno meno rapporti con il territorio e con il quartiere circostante.
Alle spalle di Paolo si intravedono anche tante persone diverse. Che idea si è fatto di questa variegata umanità che ha avuto modo di incontrare nel corso degli anni?
Ho incontrato dei medici eccezionali: Massimo Marà, il fondatore della comunità di Primavalle, pur con tutti i suoi difetti, è stato uno che ha privilegiato il rapporto umano. Ma mi sono imbattuto anche in medici e psichiatri che non erano assolutamente all’altezza del loro compito. Nel libro racconto di uno psichiatra che mi telefonava per chiedere come fare a contenere mio fratello che, all’epoca, rompeva un televisore al giorno. Altri erano completamente fuori ruolo: pur avendo tutt’altra specializzazione, dirigevano cliniche con al loro interno malati psichiatrici. Poi ci sono gli infermieri: alcuni erano molto bravi e molto umani, altri si annoiavano e odiavano il loro lavoro che svolgevano in maniera burocratica e impersonale. Così gli assistenti sociali, gli psicologi e gli operatori delle cooperative di servizi. E poi ci sono i malati, compagni di sventura di Paolo: alcuni di grandissima e straordinaria umanità, altri terribilmente negativi. Insomma, è veramente un piccolo campionario di umanità.
Leggendo il volume si ha come l’impressione che tutte le speranze legate alla legge 180 siano a un certo punto tramontante. È veramente così?
Esiste una grande differenza regionale. Quanto realizzato in alcune regioni del Nord non è paragonabile a ciò che è avvenuto in altre regioni. La nostra esperienza si è svolta principalmente nel Lazio, e davvero non c’è confronto rispetto alle regioni del Triveneto. Ma non è certamente il caso di tornare indietro. Le strutture che si occupano di disagio psichico hanno bisogno innanzitutto di finanziamenti e di una grande professionalità, che manca non solo a livello di medici ma, anche e soprattutto, a livello di infermieri e personale ausiliario. Poi c’è il problema delle strutture fisiche che non sempre sono all’altezza del compito che viene loro affidato. Nel Lazio questo è un problema che si sente in maniera molto forte, perché spesso i malati psichici sono ricoverati in strutture inadatte, anche dal punto di vista architettonico, alla loro condizione. Spesso sono confinati nei sottoscala degli edifici, senza spazi aperti e costretti a vivere negli spazi residuali di altre strutture.
Che cosa avrebbe potuto aiutare Paolo ad alleviare la sua sofferenza che non è riuscito a trovare nel suo percorso? Cosa gli è mancato soprattutto?
Penso che per lui i rapporti umani siano stati fondamentali: ciò che probabilmente gli è venuto a mancare dopo l’uscita dalla comunità di Primavalle è stato un punto di riferimento affettivo continuo al di fuori della famiglia. Si tratta di persone che dal punto di vista dei rapporti affettivi sono come tutte le altre, persone che amano e che vogliono essere amate, forse anche più delle altre. Forse la cosa che è mancata di più a Paolo sono state proprio le relazioni umane. (SuperAbile.it)