Il diritto di resistenza.

Sì certo, il tempo di Berlusconi s’è esaurito, com’era naturale dopo la condanna in Cassazione e soprattutto dopo vent’anni di becero dominio della cultura della rapina, della corruzione come regola di sistema, dell’interesse privato, del privilegio, della privatizzazione dello Stato, grazie anche a questa invereconda, soi-disante sinistra, da vent’anni in catalessi mistica davanti al pidduista. Ma il pregiudicato non ha intenzione di levare il disturbo e continua a ordinare ai suoi scherani di scavare trincee. Ma se anche, paradossalmente, la Giunta non votasse la decadenza, arriverebbe fra poco la decadenza ordinata dalla Cassazione. E allora?

In effetti io penso che Berlusconi abbia imparato bene il concetto di costruzione del consenso (manufacturing consent) espresso da Walter Lippmann e successivamente ripreso da Noam Chomsky alla cui base c’è il disegno di costruire un suddito plaudente. Bisognerebbe capire perché noi, che ci riteniamo cittadini e non sudditi, non solo accettiamo ma addirittura chiediamo che ci venga detto cosa pensare e cosa fare.

In un sistema democratico un cittadino è nei fatti un re, ma paragonabile al sovrano che regni in una democrazia costituzionale come quella britannica, un sovrano le cui decisioni sono solo formali, le cui funzioni sono quelle di apporre una firma sulle decisioni prese dall’esecutivo (the King reigns but does not govern). Il problema della legittimazione democratica è come quello della monarchia costituzionale: come proteggere la dignità del sovrano? Come fare in modo che sembri che sia il sovrano che decide realmente, quando tutti sappiamo che non è vero? Ciò che noi chiamiamo la “crisi della democrazia” non è ciò che avviene quando la gente smette di credere nei propri poteri ma, al contrario, quando si rende conto che il trono è vuoto, che le decisioni non sono le sue. Le “libere elezioni” – e le leggi che le regolano – dovrebbero mostrare almeno una dose minima di buone maniere, nel senso che quelli al potere dovrebbero almeno far finta di non averlo veramente, il potere, e ci dovrebbero domandare di decidere liberamente se glielo vogliamo concedere. I partiti politici italiani sanno che noi sappiamo e quindi da anni ormai dichiarano che la nostra vergognosa legge elettorale, il Porcellum, deve essere modificata, ma si sono finora guardati bene dal farlo, combattuti come sono tra la necessità di trovare la via d’uscita da un labirinto che impedisce di mettere in piedi maggioranze stabili e la difficoltà di rinunciare al vantaggio di nominare un parlamento asservito alle segreterie dei partiti, caratterizzato da un servaggio di tipo medievale, un vero e proprio simulacro in un ordinamento statuale svuotato delle sue essenziali funzioni. Tanto varrebbe essere governati da un triumvirato. Costerebbe meno.

Alain Badiou, geniale filosofo marxista francese, ha scritto un saggio politico, “Sarkozy”, in cui fa una distinzione tra due livelli di corruzione in democrazia: il primo, la corruzione tout-court, è ciò che noi intendiamo generalmente con questo termine, mentre il secondo riguarda le forme della democrazia in sé ed il modo in cui esse riducono la politica ad essere un negozio di interessi privati. Questa distinzione diventa visibile nel (raro) caso di un partito politico autodefinitosi democratico, sedicente onesto, che mentre fa finta di combattere la corruzione empirica, tout-court, mantiene aperta a quella di secondo tipo, perché questa è la sua stessa ragion d’essere. “Se democrazia significa rappresentanza,” – scrive Badiou – “è anzitutto la rappresentanza dell’intero sistema che ne sostiene le forme. In altre parole, una democrazia elettiva è soltanto rappresentativa in quanto è anzitutto la rappresentazione consensuale del capitalismo, o quello che oggi è stato chiamato con un nome nuovo, economia di mercato. E questa è la corruzione sottostante”.

Berlusconi è stato una figura significativa e l’italia è stata (e continua ad essere) un laboratorio sperimentale dove viene programmato il nostro futuro. Se la nostra scelta politica è tra la tecnocrazia liberal-progressista ed il populismo fondamentalista, la grande conquista di Berlusconi è stata quella di conciliare i due sistemi, di impersonarli entrambi allo stesso tempo. Si può dire che è stata questa combinazione a renderlo imbattibile, quanto meno fino ad oggi. I resti di quella che fu la sinistra italiana sono ormai rassegnati al destino di tenerselo, e questa è forse l’aspetto più triste, più squallido, del suo regno: il suo dominio è il dominio di coloro che vincono per abbandono dell’avversario, che governano grazie alla demoralizzazione cinica che inducono in una pseudo opposizione, senza idee, senza progetto, senza visione del suo ruolo nella società, senza nozione del suo ruolo rappresentativo di chi.

Il che lascia ben intendere quale futuro attende questo sciagurato Paese, in balia di bande, di associazioni per delinquere, di profittatori di regime senza un’idea, un progetto, quelli che non conoscono neppure il senso e il significato di una politica industriale. Si aspettano che noi si creda ch’è arrivata l’ora del rilancio dell’economia, dello sviluppo. Ma di quale sviluppo parlano questi sepolchi imbiancati, tutti costoro la cui ignoranza, ignavia e inesauribile sete di arricchimento personale ha portato alla distruzione del tessuto industriale del Paese? Non abbiamo più l’industria di base, quella chimica, quella cantieristica, quella siderurgica, quella informatica, quella automobilistica, quella cementiera, ed ora pure quella delle comunicazioni telefoniche ed aeree. Ma chi deve fare R&D (pardon, ricerca e sviluppo)? Le fabbrichette del polo calzaturiero delle Marche? Quelle dei rubinetti della Valbrembana? Quelle dei fischietti di Caltagirone? Qualcuno li informi che qui si tratta di re-industrializzare il Paese, come se fossimo usciti (e ancora siamo anni-luce dall’uscirne) da un’altra guerra.

E’ un fatto incontrovertibile, ma dai tempi della Sofindit (ma chi si ricorda della Sofindit?) e dell’IRI non c’è più stato uno straccio di politica industriale in Italia.

Io – cavernicolo anarco-liberale, un bolscevico per la classe politica italiana tutta, digiuna di grammatica, di sintassi e di storia – attendo ancora che qualcuno proponga un vecchio, sano, credibile piano quinquennale che comprenda un progetto di politica industriale ed un piano di lentissimo ma costante rientro dal debito pubblico. (Come chiedere la luna, quando si va dritti verso la crisi di governo mentre siamo sempre in attesa della legge elettorale un po’ meno maiala di quella che ci hanno imposto tutti i governi degli ultimi cinque anni).

Nella filosofia politica di Locke esiste il right of rebellion (in italiano si chiama diritto di resistenza), il diritto di opporre resistenza al potere costituito quando i governanti tradiscano il diritto naturale e il diritto positivo, facendo venir meno il patto sociale che li legittimava. Non siamo ancora alla rivoluzione, per il buon vecchio John, ma siamo già oltre la disubbidienza civile. Ma ho fondati motivi per ritenere che il popolo italiano sia vecchio, corrotto e vile e che ben più gravi affanni, dolori e perdita di dignità dovrà affrontare per trovare una sola ragione (delle tante) per sollevare la testa. Come testimonia la storia nazionale degli ultimi 90 anni.