Il figlio stesso della luna (αὐτός)

Il termine autismo deriva dal greco αὐτός (“stesso”).

Con tale termine vengono comunemente definite alcune sindromi di natura neurobiologica raggruppate sotto la categoria nosologica di “Disturbi generalizzati dello sviluppo” (DGS), ovvero “Pervasive Developmental Disorders” (PDD). L’eziologia dell’autismo rimane nella maggioranza dei casi sconosciuta e, ad oggi, non esistono cure risolutive: con l’autismo si nasce e con l’autismo si vive tutta la vita e poi si muore.

L’autismo viene considerato dalla comunità scientifica internazionale un disturbo pervasivo dello sviluppo che si manifesta entro il terzo anno di età con gravi deficit nelle aree della comunicazione (turbe qualitative e quantitative del linguaggio), dell’interazione sociale (turbe qualitative e quantitative delle capacità relazionali, con tendenza evidente all’isolamento), dell’immaginazione (uso inappropriato e stereotipato di oggetti) e con problemi di comportamento (auto ed etero aggressività, iperattività fisica accentuata, ipersensibilità alle variazioni dell’ambiente circostante o delle figure di riferimento affettivo); e pur accompagnandosi ad un aspetto fisico normale, perdura per tutta la vita.

Ad essere assente o fortemente compromesso nell’autismo, non è un senso (udito, parola, vista) o un arto una o più arti, ma è il patrimonio innato di abilità con cui ogni essere umano, ovunque si trovi e al di là di qualsiasi differenza etnica e culturale, riesce ad entrare in contatto con gli altri, ad intuirne bisogni, stati d’animo, aspettative. Per questo motivo una definizione dell’Autistico è quello di essere Figlio della Luna, nel senso di essere lontano da noi e per certi versi irraggiungibile.

Tale termine è abbastanza recente solo nel 1943  Leo Kanner aveva descritto per primo la sindrome autistica su di una rivista medica specializzata, ritenendola una patologia neurologica (organica): nei mesi successivi da tutti gli Stati Uniti d’America vennero a consulto da lui, nel suo famoso e costoso ospedale, alcune decine di famiglie con un bambino corrispondente alla descrizione che egli aveva fatta dell’autismo. Dall’osservazione che si trattava di famiglie della media e alta classe borghese, con la madre acculturata e spesso “in carriera”, Kanner ritenne che fossero queste le caratteristiche e quindi le cause di tutti i casi di autismo. Al danno la beffa e ancor oggi si attribuisce ai genitori l’autismo dei figli. Kenner solo nel  1969, assolse pubblicamente i genitori dall’essere causa dello sviluppo della sindrome autistica nei loro figli, riconoscendo il suo errore.

Ma non è stato sufficiente e sulla base di questo errore si è basata l’ipotesi che il bambino fosse neuro-logicamente sano e che la causa dell’autismo fosse un rapporto inadeguato con la madre. Per un ventennio questa falsa ipotesi ha dominato la scena mondiale, indirizzando bambini e madri verso inutili trattamenti psicodinamici. Diversi studiosi hanno contribuito a mantenere la fede nell’errore di Kanner anche dopo che egli stesso lo aveva rinnegato e l’Italia, insieme con la Francia e l’America Latina, sono i Paesi ove ancora oggi si ritrovano molti epigoni di queste false “scuole”.

Un’indagine su alcuni bambini usciti vivi dai campi di concentramento nazisti alla fine della guerra, aveva dimostrato che neppure quelle condizioni estreme di privazione di affetto poteva indurre la patologia autistica. Allo stesso modo Asperger, quasi contemporaneamente a Kanner, aveva descritto i soggetti autistici e quelli che da lui presero il nome (Sindrome di Asperger), indicando correttamente il cammino per identificare le cause e anche quello per effettuare un’abilitazione delle capacità residue, da lui chiamato “pedagogia curativa”, che oggi qualcuno preferisce chiamare pedagogia clinica oppure pedagogia speciale.

E quando, finalmente, le ricerche epidemiologiche e l’osservazione scientifica hanno fatto emergere con chiarezza che alla base della sindrome autistica c’è un deficit neurologico, molti genitori hanno disperatamente cercato rimedi farmacologici e dietetici.

Il desiderio di guarire questi figli lontani ed estranei induce molti genitori a scambiare per risultati positivi di farmaci e diete quelle variazioni positive dello stato di salute che potrebbero essere ottenute anche mediante un placebo, il finto farmaco. Su questo terreno giocano molti venditori di illusioni, che fanno pagare come cura ciò che al massimo potrebbe essere ritenuta un’ipotesi di ricerca.

Mi piace riportare una fiaba che bene spiega chi è l’Autistico e che relazione ha con il “prossimo” ricordando, sia pure con durezza, che dall’autismo non si guarisce ma si può solo migliorare.

Le fate, stanche di non essere riconosciute dal genere umano, decisero di sostituire i loro figli con neonati umani al fine di amalgamare le due razze.  I sostituti essendo figli delle fate sono bellissimi ma presentano un comportamento strano, assente, asociale come se il mondo in cui vivono non fosse  il loro e mostrando un disinteresse totale per tutto ciò che li circonda.

Sono soli in mezzo ad una moltitudine di persone perché si appartano, si ritraggono quando i genitori li abbracciano, non giocano con i coetanei, non sorridono, non piangono quando si fanno male, spesso camminano in punta di piedi e quando guardano non vedono il punto di interesse ma al di là di esso, verso un orizzonte senza colore.

La maggior parte di essi non parlano, altri potendolo fare non chiedono, non ringraziano, non prendono iniziative, altri sono ancora incapaci a mostrare allegria, immaginazione, occupano,la mente con azioni ripetitive ed inconcludenti come lo sfarfallio delle mani,il fissare cose e persone ossessivamente, recitare per ore ed ore la stessa filastrocca, dondolarsi ripetitivamente, mordersi le mani, annusare oggetti e persone, andare in escandescenza per lievi cambiamenti nei luoghi frequentati ed altre, tante altre cose strane.”

Eppure per coloro che non credono alle favole, questi bimbi sono nostri figli, particolari si ma pur sempre i nostri figli, la nostra proiezione, una delle poche ragioni di vita.

Sono i nostri assenti sempre presenti inconsapevoli di quanto amore possono dare forse perché indifesi, forse perché ci fanno vedere il mondo con la luce dei loro occhi, con l’innocenza del loro comportamento, con l’amore prigioniero dentro.

L’autismo è un grande problema, anzi un grandissimo problema anche perché l’autismo è vissuto dalle famiglie come un grande dramma. Ed è il dramma quotidiano di genitori che cercano di capire che cosa c’è nella mente di questi bambini, con i quali si fa così fatica a comunicare. Proprio la comunicazione è l’unico terreno di confronto con l’autistico.

Infatti è possibile una qualche comunicazione a livelli molto diversi, anche perché ognuno di questi soggetti ha una possibilità di comunicazione: alcuni sviluppano il linguaggio, anche se magari più povero o diverso da altri, mentre altri non lo sviluppano per niente, ma mantengono possibilità di comunicazione con la gestualità, con la mimica, con il gioco. Il modo con cui comunicare con questi bambini diventa uno degli obiettivi dei trattamenti di cura unitamente al coinvolgimento dei familiari nella terapia, non limitata alla cose da fare e quindi dare indicazioni su come comportarsi, cosa fare, ma anche un coinvolgimento attivo e che è un coinvolgimento nell’imparare a gestire il bambino, ma anche imparare a promuovere la sua salute, la sua qualità di vita, il suo benessere e con questo anche quello della famiglia. Le potenzialità possono essere più o meno ampie, ma non dobbiamo immaginare che per questi bambini non ci sia niente da fare.

Molti pregiudizi condizionano, purtroppo, un approccio costruttivo alla malattia autistica. Questi bambini, da un lato, sono esclusi perché fanno “paura”, sono assolutamente diversi dagli altri e ci mettono in discussione, ci mettono in difficoltà, e, dall’altro, siamo noi a creare delle categorie uniche, vengono ad esempio tutti accorparti sotto l’etichetta “ritardati mentali”, cosa che non è vera perché non tutti lo sono, anzi molti non lo sono per niente e sono dotati di una buona se non addirittura elevata intelligenza.

Il secondo problema è l’intangibilità della patologia: una patologia fisica come tale viene riconosciuta e in qualche modo anche giustificata ed accettata; in questi bambini il danno tangibile non si vede, perché c’è un danno comportamentale, e quindi l’esclusione si trova frequentemente ed è una di quelle cose contro le quali bisogna assolutamente agire.

Basti pensare che mentre nell’età pediatrica i servizi sanitari e scolastici sono in qualche modo attivati e allertati incredibilmente quando si varca l’età dei 18 anni questi soggetti perdono perfino l’identità della loro patologia, sono dispersi nei servizi sociali, con delle finte diagnosi di ritardo mentale. Certamente non si può avere integrazione se non si ha riconoscimento del proprio problema e trattamento specifico del proprio problema.

La difficoltà sociale che l’Autismo pone risiede proprio nel concetto d’integrazione. Infatti i termini e i parametri dell’equazione sono ribaltati, non è più il disabile che deve entrare ed integrarsi, con grandi ed enormi difficoltà, con la famiglia, con il lavoro e con la società ma sono tutte queste realtà (famiglia, lavoro, società) che se vogliono comunicare con l’autistico devono integrarsi con la sua possibilità di comunicazione. Il termine greco, “stesso”, non significa solo con se stesso ma anche bastevole a se stesso sia dal punto dei vista empatico che affettivo.

E poiché la patologia Autistica è cosi recente da non consentire ancora dogmatizzazioni o l’individuazione di categorie precostituite l’ausilio di un’ulteriore fiaba ci potrà meglio aiutare a esplicitare il senso dell’obbligo morale d’integrazione cui la Società, con la S maiuscola, è chiamata a realizzare e fornire all’Autistico.

C’era una volta in un grande stagno una piccola ameba che sentendosi sola si sdoppio e generò così un’altra ameba a sua immagine e somiglianza. Notò che era meglio stare in compagnia e continuò a sdoppiarsi; nacquero cosi tante piccole amebe che fatta conoscenza si rincorrevano felici sguazzando nello stagno. Erano tutte belle e specchiandosi nell’acqua limpida, prese da raptus narcisistico, si sdoppiarono anch’esse popolando lo stagno di innumerevoli creature variopinte. Papà ameba era felice guardando quella moltitudine di figli che gli stava attorno rispettosa e vociante. Era bello stringerli al petto, sentire il palpito dei loro cuoricini, carezzarli dolcemente quando aderivano a lui con i loro corpicini. Vennero a trovarle diversi animali e le amebe, piccole creature, infinitamente buone, fecero amicizia con questi esseri cosi diversi da loro.

Alcune, dopo aver ricevuto al benedizione del padre, andavano in giro per il mondo in compagnia dei nuovi amici che avevano bevuto l’acqua nello stagno. La vita delle amebe sembrava scorrere secondo un ordine prestabilito, finche un giorno papà ameba vide un suo figliolo, il più bello, appartato in un angolo tutto solo e triste che non si specchiava nell’acqua.  Gli si avvicinò e lo chiamò sommessamente, il piccolo non rispondeva; lo carezzò delicatamente ed il piccolo si ritrasse infastidito; lo osservò attentamente e si accorse che il suo sguardo vagava nel nulla, guardava gli oggetti che aveva attorno sfiorandoli con gli occhi; si accorse anche che le altre amebe, sue creature, deridevano il piccolo che non le degnava di uno sguardo.

Papà ameba, preoccupato viaggiò tanto con il figlio consultando i migliori specialisti che non seppero spiegare la provenienza del male. Gli fecero tantissimi esami ma tutti lo trovarono perfettamente sano e la loro diagnosi fu “non malato”.Solo l’oculista, visto che il piccolo non si specchiava nell’acqua, disse che era miope e suggerì di mettergli gli occhiali.

Papà ameba comprò gli occhiali più belli e li mise al figlio, comprò gli abiti più belli e li indossò al figlio, comprò il cibo più buono e lo dette al foglio, comprò il lettino più bello, la televisione più grande e soddisfatto li regalò al figlio ammalato. Era contento papà ameba per tutto quello che aveva fatto e la vita così riprese lentamente a trascorrere.

Il tempo passava, ma l’atteggiamento del piccolo non mutava, non parlava, si mordeva le mani, si dondolava ripetutamente nell’angolo più remoto dello stagno, annusava tutto ciò che gli stava attorno, agitava le mani scoordinatamente, e papà ameba di nuovo, preoccupato, andò da un ospedale all’altro senza risultati  positivi.

Un giorno, però ebbe un’intuizione folgorante: si chiese se per caso l’ottico avesse sbagliato a graduare gli occhiali e si mise, lui che aveva 10/10 di vista, gli occhiali da miope del figlio. E vide, finalmente, il piccolo. Il cuore gli batteva a mille all’ora, la testa sembrava scoppiargli da un momento all’altro e lentamente rivide nella mente tutti gli errori commessi. Prese il piccolo per mano delicatamente e lui non oppose resistenza, andarono dall’ottico e comprarono migliaia di occhiali per miopi. Ritornarono a casa e papà ameba distribuì gli occhiali a tutti i parenti ed amici. Così finalmente papà ameba e i suoi figli miopi potevano vedere il “piccolo diverso”, e fecero a gara ognuno nel proprio campo, ad insegnargli tutto quello che sapevano, finche un bel giorno  la piccola ameba si specchiò nell’acqua e si sdoppiò come i suoi fratellini.“

Una particolare forma d’Autismo e La Sindrome di Asperger (abbreviata in SA, o AS in inglese) Gli individui portatori di questa sindrome sono caratterizzati dall’avere una persistente compromissione delle interazioni sociali, schemi di comportamento ripetitivi e stereotipati, attività e interessi molto ristretti.

Diversamente dall’autismo classico, non si verificano significativi ritardi nello sviluppo del linguaggio o dello sviluppo cognitivo. Bambini portatori di questa sindrome mostrano spesso una capacità molto limitata per le spontanee interazioni sociali, falliscono nello sviluppare solidi rapporti di amicizia, e si applicano solo a ristretti argomenti di interesse ad esclusione di tutti gli altri. Anche se molte persone con questo disordine hanno alcuni problemi di comunicazione, per esempio una povertà nella comunicazione non verbale o un linguaggio pedante, alcuni individui possono possedere buone facoltà sia verbali che cognitive.

Gli individui con la Sindrome di Asperger hanno un’intelligenza nella norma o addirittura superiore alla norma, e possono offrire grandi contributi intellettuali ma allo stesso tempo, a causa della loro scarsa capacità di empatia, possono mostrare insensibilità sociale e apparire indifferenti verso i propri stessi cari. Anche se i deficit manifestati da queste persone sono spesso debilitanti, molti individui ottengono risultati positivi, soprattutto in aree in cui non è richiesta un’interazione sociale.

Gli individui affetti da questa sindrome possono osservare un sorriso e non capirne il significato (cioè non capire se si tratti di un segno di comprensione, di accondiscendenza o di malizia) e nei casi più gravi non riescono neppure a distinguere la differenza tra sorriso, ammiccamento e altre espressioni non-verbali di comunicazione interpersonale. Per loro è estremamente difficile saper “leggere tra le righe”, ovvero capire quello che una persona afferma implicitamente senza dirlo direttamente (la menzogna, i doppi sensi, l’ironia implicita). Interpretano gli altri esclusivamente come si mostrano effettivamente, ne danno cioè un’interpretazione solo letterale.

Questo stato o condizione innata/genetica (ha indubbiamente una base biologica) può portare ad avere problemi con i normali scambi sociali tra persone di pari livello. Nell’infanzia e durante l’adolescenza questo può causare seri problemi perché un bambino o un ragazzo così avrà difficoltà a decodificare i segnali impliciti su cui si reggono le interazioni sociali e potrà essere messo da parte dai coetanei, creando quindi una sorta di “crudeltà sociale”: potrà venir quindi spesso considerato corresponsabile di questa crudeltà nei suoi confronti sebbene egli non riesca a capire né il perché dell’ostilità né cosa stia facendo di “sbagliato”. L’alienazione sociale delle persone con la sindrome di Asperger è così intensa fin dall’infanzia che molti si creano amici immaginari per compagnia: questo può condurre a elevatissime capacità per esempio tecnico-informatiche, nella creazione di giuochi di ruolo o attività astratte come logica matematica, intuito musicale, o addirittura fisica teorica altamente specialistica.

Spesso comunque l’intensa attenzione e la tendenza a cercare di capire logicamente le cose può garantire alle persone con Sindrome d’Asperger un alto livello di abilità nei loro campi d’interesse specifico. La loro facilità di lettura-scrittura è notevole, tanto che possono essere definiti “iperlessici”, a volte grafomani o addirittura capaci di tenere a memoria un intero libro dopo averlo letto un’unica volta. Sebbene molti di loro non possano avere una vita considerata socialmente appagante dalla gente comune, difatti rimangono pressoché soli, volentieri isolati, gli è possibile a volte trovare persone comprensive/competenti.

Così mentre molti affrontano enormi problemi, alcuni riescono a superare gli ostacoli e ad avere successo in società. Alcuni riescono anche a sposarsi e avere figli; i quali possono a loro volta essere persone comuni o soffrire di qualche disturbo di tipo autistico.

Per concludere, nel confessare che non essendo un medico molte delle informazioni riportate sono il frutto di altri autori a cui và il mio ringraziamento per il contributo fornito, mi piace riportare tutta una serie di personaggi famosi cui è stata diagnosticata la  Sindrome di Asperger:

Isaac Newton (16431727), Albert Einstein (18791955) Glenn Gould (19321982), Steven Spielberg (1946), Satoshi Tajiri (1965), Michelangelo (14751564), Nikola Tesla (18561943), Ludwig Wittgenstein (18891951), Bobby Fischer (19432008), Syd Barrett (19462006), Wolfgang Amadeus Mozart (17561791) . I quali tutti ne mostravano alcune caratteristiche, come l’intenso interesse in un solo campo del sapere e vari problemi sociali.

Pietro Giunta.