VANCOUVER 2010, paraolimpiadi

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La strada del futuro è già tracciata: sempre più in alto, sempre più avanti, sempre più pubblicizzati dai media – per una maggiore attrattiva, grandi emozioni e momenti di autentico sport per gli spettatori e l’opinione pubblica.

Vera e propria manifestazione complementare ai Giochi olimpici, le Paralimpiadi costituiscono i maggiori giochi del mondo per gli sportivi colpiti da un handicap fisico o della vista. Essi si tengono nella stessa città delle Olimpiadi estive o invernali circa due settimane dopo la loro conclusione.

I primi giochi su modello olimpico si tennero nel 1960 a Roma, dove 400 atleti e atlete provenienti da 23 nazioni parteciparono alle competizioni. Nel 1976 a Toronto furono create altre categorie di disabili, che si unirono a quella dei paraplegici.

Mentre scrivo la 10° edizione dei Giochi Paralimpici invernali, si sta svolgendo nella cittadina canadese di Vancouver. Nel corso delle nove giornate di gara saranno in lizza cinque discipline paralimpiche invernali: sci alpino, biathlon, sci di fondo, curling in carrozzino e hockey su slittino.

Le discipline paralimpiche si fanno sempre più importanti.

 

Bene la notizia è stata data, l’articolo è finito e mentre penso di spegnere il computer, un inaspettato flashback mi riporta indietro nel tempo a un’altra vita, a un’altra esistenza e a un’altra ora.

 

Ore 12,30, la campanella ha un suono acuto e penetrante, senza soluzione di continuità il rumore dei banchi rimossi dal loro baricentro segue dappresso lo stridio delle sedie spostate che si riversa da una parte all’altra dell’aula.  Le voci si rincorrono lungo il corridoio, nel silenzio del luogo l’idea di gridare più forte non può essere fermata e quasi a voler riappropriasi dell’energia repressa da quattro ore di filosofia e letteratura, non più misurate e contenute s’infrangono e rimbombano tre le porte chiuse delle altre aule della Scuola. Io, ultimo come sempre, arranco dietro i miei compagni di classe e quasi a non voler perdere il contatto con il gruppetto di testa grido, schiamazzo e chiamo il loro nome più forte. Li costringo, sia pure inconsciamente, a fare i conti con me, a non potermi escludere, a non potermi lasciare indietro anche se lo avessero voluto e vi assicuro non lo vollero allora e non lo hanno mai voluto in seguito.

Non sempre riesco a stargli dietro, spesso arrivo in palestra, quando già si sono formati gli schieramenti e mentre il pallone è calciato e scalciato da destra a sinistra senza uno schema preciso, io mi trovo ancora a scendere le scalette di ferro che portano alla palestra della Scuola e al pavimento ricoperto da una spessa guaina di gomma nera.

E’ sempre stato un problema mantenere l’equilibrio su un piano di calpestio instabile come può essere una guaina di gomma, ma l’idea di socializzare e giocare insieme con gli altri, senza distinzione e differenze di sorta, mi ha fatto sempre sentire come se fossi andato a Lourdes e fossi tornato miracolato.

Due pali di legno delimitano la porta della pallamano e per un tacito accordo quello è il mio posto. Io sono il portiere, anzi l’unico portiere, di una classe di circa dodici ragazzini che non possono certo formare due squadre. Loro giocano a calcetto ed io faccio del mio meglio per parare il possibile e mi attrezzo anche per parare l’impossibile.

Dietro di me un muro dove mi appoggio ogni volta che devo parare con la gamba destra costretta a fare, suo malgrado, anche il lavoro che la sinistra non è capace di fare mentre il braccio sinistro è incalzato a parare e contemporaneamente a fare fronte alle deficienze del sinistro.  Acclamato e fischiato in egual misura non c’è alcun bisogno dell’integrazione scolastica. Una cicatrice che spicca sul mento, diversi occhiali rotti e sbucciature alle ginocchia e alle braccia sono a testimoniare il mio impegno.

Trentacinque anni fa, nel 1975, a Messina presso il Liceo Scientifico Archimede c’erano già le classi miste, ma l’ora delle 11,30 aveva un significato particolare solo per i ragazzi. Non esisteva ancora un concetto o meglio, non era ancora applicata l’educazione fisica come forma d’attività motoria necessaria allo sviluppo psicofisico dell’alunno, cosi mentre le ragazze passavano quell’ora in classe a cianciare dei primi amori adolescenziali i ragazzi scappavano fuori dall’aula con l’idea di evadere da una prigione e inseguire i sogni di un futuro migliore dietro ad un pallone.

Ovviamente nel 1975 era impensabile anche solo l’idea di una pratica sportiva che avesse come fine la ricerca e il mantenimento di un accettabile stato di salute della persona disabile.

Basti riflettere che sino alla prima metà degli anni ’60, in Italia tutti i disabili erano educati nelle scuole speciali e negli istituti con residenza notturna. Solo verso il 1966 e il 1967 cominciò a circolare in Europa le idee della Barkley University con la contestazione al “sistema capitalistico” di inquadrare e percepire gli uomini solo in una dimensione economica (Marcuse). Queste idee che puntavano a combattere contro tutte le forme di emarginazione si diffusero in Francia, durante il “Maggio della rivolta studentesca del ’68” e in Italia con “l’autunno caldo sindacale” del ’68.

In Italia solo dopo venti anni si riuscì a passare dalle idee ai fatti, prima con una legge del 1977 e poi con una Sentenza della Corte Costituzionale del 1987, le quali nel chiudere di fatto le scuole e gli istituti speciali per disabili (veri e propri ghetti) stabilirono il principio dell’inclusione degli alunni disabili prima nella scuola elementare e media, in seguito il diritto pieno ed incondizionato di tutti gli alunni disabili, anche se in situazione di gravità, a frequentare anche le scuole superiori. In questo modo, almeno sulla carta, s’impose a tutti gli enti interessati (amministrazione scolastica, Enti locali, Unità sanitarie locali) l’obbligo di porre in essere i servizi necessari e di propria competenza per sostenere l’integrazione scolastica generalizzata.

Da questo humus e in quest’ambiente nasce la Legge n. 104/92 che agli articoli da 12 a 16 fissi i principi per una buona qualità dell’integrazione scolastica.  Purtroppo lo spirito e gli intenti di questa bellissima legge, disattesa per molteplici ragioni che vanno dalla mancanza di fondi, a un atteggiamento retrogrado e burocratico, a una resistenza socio-culturale finalizzata a un falso protezionismo della persona disabile e a un’opposizione rappresentata dai limiti materiali delle barriere architettoniche latenti e manifeste della nostra società, ancor’oggi non hanno trovato una concreta applicazione.

In questa prospettiva, diventa importante sapere imputare e condannare i competenti amministratori dei nostri Ministeri, della nostra istituzione scolastica, dei nostri Enti Locali e Comunali, delle numerose e non sempre meritorie Onlus cittadine, pronte a costituirsi e a porsi al capezzale del moribondo di turno (Scuola, Disabili, Famiglia, Tradizione, ecc.) al solo fine di percepire vantaggi fiscali ed economici di varia natura e genere, delle altrettanto numerose associazioni cittadine, più preoccupate di essere dei serbatoi di voti per il politico di turno che a fare gli interessi degli associati.

Imputare e condannare, dicevamo, per le colpe e la responsabilità a loro derivanti della mancata integrazione anche del singolo disabile se è vero, com’è vero, che della L.104/92 a oggi, a oltre cinquanta anni dalla chiusura delle scuole speciali, non si è ancora riusciti ad applicare neanche i principi generali di seguito riportati:

“L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione” (articolo 12, comma 3). “

“L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap” (articolo 12, comma 4).”

Basti riflettere che dai dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione si rileva che a fronte di una crescita costante del numero di studenti disabili vi sono oltre 200 scuole nelle 20 Province prese in esame, il cui 14% non ha una palestra, né interna né esterna all’edificio scolastico.
Il 20% ha solo una palestra esterna, con gravi problemi per il trasporto degli studenti disabili.
Il 58% delle scuole ha la fortuna di avere una palestra interna Ma, la fortuna finisce qui.

Una palestra scolastica su cinque, infatti, non è accessibile: barriere architettoniche di vario tipo, assenza di ascensori o di scivolo per le scale che collegano il locale destinato all’attività sportiva che non si trova sullo stesso piano delle aule. Il 90%, ossia la quasi totalità, non ha attrezzature specifiche. Il 13% presenta una pavimentazione sconnessa o danneggiata, con gravi ostacoli per il percorso di Studenti con difficoltà deambulatorie o disabilità sensoriali. In una palestra su quattro (23%) non è presente lo spogliatoio.

I dati sull’accessibilità delle palestre scolastiche s’inseriscono in un quadro più ampio di scuole che presentano spesso barriere architettoniche già all’ingresso principale e nei vari ambienti interni.
Dall’indagine emerge che in quasi una scuola su cinque non si può accedere autonomamente e la quasi totalità delle scuole si sviluppa su più piani, in assenza di ascensori, o alla presenza di ascensori non utilizzati perché non collaudati o non accessibili (18% dei casi).

In questa situazione, con la speranza che la strada dell’integrazione abbia un fine, un elemento importante diventa la pratica sportiva che assume per il disabile un valore primario come fattore di recupero fisico, funzionale e sociale giacché strumento d’integrazione e di partecipazione alla vita scolastica e comunitaria. I risultati e gli obiettivi di un’idonea attività fisica nelle scuole vanno da una progressiva riduzione della sedentarietà e delle patologie a essa correlate a un miglioramento dello stile di vita, a un recupero del deficit e dello svantaggio sociale nel fine ultimo di promuovere l’integrazione sociale e accresciuti livelli di autonomia.

Il pensiero ritorna a Vancouver, alla bianca neve del Canada, all’hockey su slittino e all’impossibilità per centinaia e centinaia di disabili di poter sentire almeno per una volta nella loro vita il freddo del ghiaccio nordico o la possibilità di esercitare lo sci alpino.

 

L’amarezza di queste considerazioni aumenta proporzionalmente al rigurgito e al ritorno di vecchie filosofie del “sistema capitalistico”, intese ad inquadrare e percepire gli uomini solo in una dimensione economica (Marcuse) dove la salvaguardia del Bilancio Statale è più importante dell’Uomo, dove costringere le Famiglie ad intentare delle cause sicuramente vittoriose al fine di vedersi riconosciuto il diritto all’insegnante di sostegno per i loro figli è meno oneroso che provvedere alla copertura finanziaria delle istanze sociali d’integrazione, dove la mancata applicazione della L.104/92 da parte degli amministratori costringe la Corte Costituzionale, a colpi di Sentenze, ad essere l’ultimo baluardo del principio d’uguaglianza. (vedi Sentenza della Corte Costituzionale n.80 del 26 febbraio 2010,  che dichiarando l’illegittimità costituzionale dei commi 413 e 414 della legge finanziaria n. 244 del 2007, ha finalmente  ristabilito l’eguaglianza sostanziale delle fasce deboli contro tutte quelle iniziative volte a tutelare gli equilibri di Bilancio.)

L’amarezza continua se penso a tutte quelle Famiglie, a tutti quei genitori costretti a riportarsi a casa i loro figli perché la scuola non è stata in grado di garantirgli il Diritto allo studio, o perché Ministri e Istituzioni, trincerandosi dietro i ruoli istituzionali, non hanno avuto la voglia e la volontà di integrare e “curare” quei ragazzi o tutelare quelle famiglie che credevano di avere dei Diritti costituzionalmente garantiti.

Mi scuso anticipatamente, ma mi si lasci dire che tra le tante giustificazioni e scusanti una sola certezza, sono convinto, una sola inconfessabile sicurezza, una sola cruda verità ha trovato alimento, motivazione e forza nel pensare e nel mal’agire di questi amministratori. “ Chi se ne frega, tanto non sono figli miei”.

Pietro Giunta

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