C’è un paese che per ciascuno di noi è il luogo assoluto. È un luogo che ci portiamo dentro, con cui restiamo in dialogo sempre e specialmente ora, in queste giornate di interruzione della vita ordinaria, in cui ci fermiamo a riflettere sullo scorrere del tempo, a ricordare le persone ed i luoghi dell’anima, in cui recuperiamo noi stessi attraverso le nostre radici.
In questo tempo di sosta e rallentamenti, chi di noi non ha fatto il pane in casa secondo la ricetta antica delle madri, con il lievito madre? chi non è stato preso dal desiderio di recuperare un frammento di una pratica familiare ma sentita come appartenente ad un’altra vita: dedicarsi all’orto, restaurare un mobile, cucire o ricamare? Chi non ha pensato a telefonare o scrivere a persone che appartengono ad altri tempi delle nostre vite?
È un luogo dell’immaginario, della coscienza, del desiderio. Il luogo che ci permette di fare i conti con noi stessi. La rimembranza lo scolora o lo ridisegna. Ma può rimaterializzarsi: nel racconto delle madri, dei padri, delle donne e degli uomini anziani, delle amiche e degli amici antichi. Ma non solo. Per me, almeno.
C’è, infatti, un luogo immateriale dove si rimaterializza il mondo sparito che ho vissuto; dove riprende forma, colore e odore, la cultura di radici contadine nella quale sono cresciuta e che è stata cancellata dalla globalizzazione; da dove riemerge lo spirito antico di una comunità che viveva in armonia con la terra e con la natura; dove s’incontrano e dialogano generazioni diverse, anche da luoghi lontani, che recuperano radici e storia delle proprie radici, anche se si è altrove, e da tanti anni; dove si rivivono i luoghi dei ricordi dell’infanzia e della giovinezza, si ritrovano volti familiari e antichi, qualche volta l’amico che non vedi da decenni e si dialoga con lui.
Questo luogo prezioso è la pagina social di un artista della fotografia, che ha attraversato un pezzo della storia di Mazzarino, paese del nisseno, di eroiche battaglie contadine contro il latifondo, di tradizioni e di cultura laica e clericale, di chiese, castelli, monasteri, svuotato dalle emigrazioni che riemergono ciclicamente e in realtà non si sono mai fermate, portando altrove lavoranti e studenti, donne e uomini, la più bella e intraprendente gioventù.
Il magico fotografo, Gaetano Bonaffini, da anni fa rivivere questo mondo sulla sua pagina facebook che sembra sostituire il capannello di mazzarinesi che conversano del presente e del passato, del tempo e dei raccolti, della vita che scorre e della storia che cambia.
Gaetano ripesca, senz’ordine apparente, dai suoi preziosi archivi foto di luoghi, oggetti, monumenti, riti, feste, volti, atmosfere, colori, persone.
Sono i volti dei contadini segnati dal sole e dalla gravosa fatica dei lavori dei campi: visi ora miti, ora duri, ora intimiditi dal fotografo, talora in posa, talora sospettosi, o aspri, benevoli, antichi, ironici, sempre nobili.
I contadini si ritrovavano negli anni Sessanta e Settanta al tramonto, o la domenica al mattino, nella grande piazza del paese, davanti alla Chiesa del Carmine. Vestivano tutti secondo lo stesso rituale, non era moda, era rituale: con il tascu, per lo più nero, d’inverno e d’estate, con il cappotto con la pelliccetta di lana ricciuta durante la stagione fredda, quando ancora qualcuno indossava ancora la scappulara verde o blu, con la camicia bianca, senza cravatta, nelle stagioni calde.
Oggi il rito non si rinnova perché, come dice Gaetano, ”la civiltà contadina è tramontata”, l’agricoltura ha conosciuto la grande crisi dell’era della globalizzazione, i contadini non ci sono più, perché le campagne sono state abbandonate, perché la piazza non è più l’agorà di allora né il centro dei circoli ricreativi dei lavoratori o dei “galantuomini”.
Ad ogni foto, parte la corsa al riconoscimento: ci proviamo tutti e tutti ritroviamo volti cari, ricordi che sembravano sepolti riemergono, incroci di antiche parentele allentate dal tempo, di vicinato familiare e caro ormai trasfigurato dagli anni, eppure sempre vivissimo nei ricordi.
Era uno spazio tutto maschile la piazza ancora negli anni Sessanta: le donne non sedevano e non entravano neanche nei bar da sole, evitavano anche di passarci, sottraendosi così ai commenti poco benevoli e agli sguardi fintamente distratti degli uomini.
La piazza si riempiva tutta, dalla strettoia di Santa Lucia alla Chiesa del Carmine, nelle giornate dei Comizi che hanno fatto la Storia, quando affacciati dalla balconata del Comune parlavano Pio La Torre, Filippo Siciliano, Totò La Marca, Peppe Scambiato.
Nelle foto di Gaetano Bonaffini ritroviamo anche la piazza delle proteste sociali e politiche, degli scioperi, delle manifestazioni che hanno coinvolto una comunità che ha combattuto tenace per i suoi diritti.
I luoghi delle battaglie sono i campi, i circoli, anche la sede della radio. Una foto mi colpisce: è la Casa del Lavoro, contadini riuniti, assiepati per discutere le linee della loro battaglia e le contadine, fiere e guerriere, in prima fila.
In una foto più recente i pecorai conducono la loro protesta nel centro del paese, facendo sfilare greggi di pecore che si perdono a vista d’occhio
E se la piazza è il cuore del paese, il paese lo fanno le sue straduzze, cortili e vicoli che, se Gaetano Bonaffini non li avesse immortalati, sarebbero solo nel nostro nostalgico e confuso ricordo, ora che il Paese ha cambiato veste, tra demolizioni e abbandoni, ricostruzioni e nuove costruzioni.
Gaetano ci restituisce le strade strette e le mulattiere che si inerpicavano tra le case in pietra e gesso, con le scale ripide esterne che portano al primo piano, con le gattaiole, con la finestrella alta per accedere al solaio, con le tendine di pizzo all’uncinetto, con le currule accanto alla porta principale per legare la corda dei muli e degli asini, quando si dovevano scaricare o caricare, dopo e prima della partenza per la campagna.
Gaetano racconta altri pezzi di questo mondo che non c’è più: nei cortili, o davanti alle porte e lungo la strada si vedevano distese di astratto e chiappitelle ad essiccare al sole, mandorle e fichi ad asciugare; le donne sedute attorno alla maidda per la smallatura delle mandorle, anche insieme alle vicine di casa che in mutuo soccorso condividevano una fatica allietata da chiacchiere e un’occasione di solidale confronto sulle battaglie della vita.
I bambini e le bambine giocavano nei cortili e lungo la strada, facevano cavalluccio sul bastione della chiesa, pochi i giocattoli industriali: si giocava alla casa e alle pitredde, si ruzzolava sulle distese mandorle appena raccolte, di macchine ne passava una ogni mezz’ora.
Le sere d’estate le case erano di fuoco e le donne, dopo cena, sedevano davanti casa, mentre i bambini giocavano per strada, aspettando la frescura che solo la notte avrebbe portato. La strada era scuola di vita.
Le foto di Gaetano restituiscono anche l’altra Mazzarino, quella delle case dei notabili: i portoni possenti ornati da battiporta di ferro con figure apotropaiche, gli affreschi e gli stucchi, i balconi panciuti. Alcune foto restituiscono il ricordo dello splendore antico del palazzo Alberti: fu poi acquisito dal Comune che ne fece luogo di incontri e mostre. Ed ecco scorrere le foto della mostra contadina, con i muli, i prodotti di un artigianato arcaico che andava in mostra negli anni Settanta perché già cominciava a perdersi.
E poi ci sono i luoghi del cuore, infiniti, da sempre simboli assoluti ed essenza del paese: ci sono i campi che segnano il tempo; il Monte Formaggio, svettante, sempre lo stesso, ma in mille vesti: verde e mite ad aprile, brullo d’inverno, arso d’estate; il Convento dei frati Cappuccini con i monaci che hanno fatto la storia di Mazzarino; u’Cannuni, maestoso, in compagnia della Casa del fanciullo che scompare nelle cartoline degli anni Cinquanta che fanno rivivere la Chiesetta di Santa Sofia; le brivaturi fuori porta: gli abbeveratoi, dove pecore, capre, buoi trovavano refrigerio nelle loro transumanze e noi mazzarinesi attingevamo acqua fresca, quando l’acqua, come spesso succedeva, tardava ad arrivare alle case in paese.
Nelle foto di Gaetano riemergono anche mestieri e pratiche sociali che si sono perdute o si stanno perdendo: il calzolaio era un artista delle scarpe, l’impagliatore era richiesto da tutti per recuperare vecchie sedie – perché nulla andava buttato; in campagna ogni pratica agricola -dall’aratura alla semina, alla trebbiatura – si faceva con gli attrezzi antichi e l’aiuto dei muli e degli asini. Pesce e ghiaccio ancora negli anni Sessanta si vendevano con i carrettini di legno. Dalla campagna si tornava a dorso di mulo o di scecco.
Poi ci sono i personaggi dell’anima, quelli che tutti, senza distinzione di quartiere o età, abbiamo conosciuto, quelli che hanno segnato un umanissimo immaginario collettivo. Sono tanti, ne ricordo alcuni: c’è Filippo Siciliano, u professuri; don Peppino Lattuca, musicista brioso e ironico; Luvigi, eternamente fanciullo, con la croce sempre in spalla per il Venerdì Santo; Padre Deodato benedicente; u zu Turiddu Collodoro, ciabattino di grande finezza; suor Rosetta e le suorine del Collegio che generazioni di bambini hanno conosciuto.
Così Gaetano Bonaffini, fotografando per più di quarant’anni un paese dall’anima forte, nutrita di cultura umanissima, ne risveglia la bellezza antica. Recupera storie e memoria che possono nutrire il tempo che verrà, specialmente ora che la corsa di noi tutti si è allentata e allargare lo sguardo sul mondo che è stato diventa necessario alimento del mondo futuro.
Una proposta: un progetto-ponte tra passato, presente e futuro, una mostra permanente che accolga la preziosa opera di una vita del nostro fotografo, consegnando alla comunità e alle generazioni future un mondo ed una civiltà che non sono più ma che sempre saranno.