il lungo viaggio di Hasina

…“E Andromaca mi ha chiesto di affidarlo a te col corpo del bambino.

Avvolgi il suo cadavere nei veli, incorona la sua testa per lei.

Quando lo avrai composto, lo copriremo di terra e toglieremo l’ancora.

Ma fallo in fretta; io ho già purificato le ferite nell’acqua di Scamandro,

ed ora andrò a scavare la fossa

 

 

Vedendoli sbarcare sulle banchine dei nostri porti cerchiamo sempre di figurarci il loro viaggio, riducendolo ad un’orribile traversata di un non meglio identificato braccio di mare. Ci limitiamo ad immaginare l’ultimo tassello del loro cammino: la paura dell’attesa, la fretta con cui lasciano le coste della Libia o dell’Egitto e poi l’imbarco, gli scafisti, l’avvistamento al largo, il recupero, lo sbarco in Italia. Ogni cosa è resa spaventosamente semplice, schematica, sequenziale. Ed ecco che pian piano stupore e indignazione abbandonano i nostri animi, lasciando spazio ad un’amara rassegnazione. Sono soltanto gli ennesimi arrivati, con visi scarni e piedi scalzi: tristemente uguali mentre si affollano sui nostri moli, tanto che senti il bisogno di “qualcosa di diverso”  da raccontare come un bel volto di donna, occhi sorridenti di bambini o una mamma che allatta.

Passeggiando sul pontile, mi perdo nei volti stanchi dei sopravvissuti, fra i soccorritori incontro una donna: ha un disperato bisogno di raccontarsi e vuole che sia io ad accogliere e custodire i suoi ricordi. Mi sento imbarazzato e inadatto ma non posso far altro che ascoltarla. É me che ha scelto, non posso deluderla.

Decido realmente di prestarle ascolto quando smette di farfugliare parole e con voce decisa mi rivela di chiamarsi Ayana e di avere trent’anni.

Ma come trent’anni? La osservo con interesse, indago con lo sguardo sino a avvertire il suo imbarazzo. Dopo aver scrutato con attenzione il suo viso stanco, mi rendo conto che è ancora giovanissima. Eppure avrei giurato che avesse almeno dieci anni di più.

Sguardo fiero ma spento, come chi non vuole chiedere più niente alla vita.

Ci portano il thè che avevamo ordinato. Mi colpiscono i suoi modi aggraziati nel versare la bevanda, penso a lontani rituali di accoglienza mai dimenticati.

Viene da Akonolinga, nel Camerun. E qui mi fermo a pensare: dov’è il Camerun? Faccio un rapido ripasso di geografia, eccolo lì. Cerco di immaginare alle migliaia chilometri che separano la sua città di origine dalle coste di imbarco.

Debole ma risoluta, inizia a parlarmi di sé. Io le presto poca attenzione: molto di ciò che racconta è un de ja vu. Mi parla del marito arrestato per ragioni ideologiche. Abbiamo già raccontato attraverso le nostre pagine di come chiunque manifesti dissenso venga perseguito, sino all’arresto. Spesso si perde ogni traccia del malcapitato ed è ciò che è accaduto anche al il marito di Ayana, eppure la sua reclusione non ha messo fine alle disgrazie della donna. Presto anche il resto della famiglia è divenuto oggetto di indicibili vessazioni: l’anziano padre non ha retto alle violenze subite ed è morto dopo poco tempo. Anche Ayana è stata vittima di continue e ripetute minacce. Non si trattava di violenze sessuali, piuttosto di abusi d’altro genere che spaventavano terribilmente persino la sua bambina Non c’era nessuna speranza da rincorrere né un domani a cui guardare per una giovane e bella donna sola, facile bersaglio di sedicenti “governativi”

Un giorno, complice un amico del marito, decide di lasciare quella terra di odio e violenze, la sua terra quella che comunque amava.

Partirono alle prime luci dell’alba, con lei la piccola Hasina, sua figlia. Una intelligente bambina di due anni, sveglia, cresciuta nella paura e nell’odio ma non per questo rancorosa.

Avevano consegnato duecento dollari all’autista di uno scalcagnato camioncino e avevano preso posto dietro, sul cassone senza sponde. Il sentiero era dissestato per cui bisognava stare gli uni abbracciati agli altri per non cadere. Il percorso prevedeva diverse tappe ma più per esigenze del mezzo che delle persone, ad ogni sosta venivano distribuite maleodoranti bottiglie di plastica con acqua: naturalmente quel poco che c’era da bere doveva bastare per tutti e i viaggiatori erano costretti a servirsene a turno. I primi giorni lasciavano che fosse lei a dissetarsi per prima ma, con il passare dei giorni il viaggio si fece logorante e le bottiglie meno piene e i maschi smaniosi di estinguere la sete bruciante presero a svuotare con avidità le piccole borracce, senza riguardo nemmeno per la bimba.

“Dopo oltre venti giorni, ancora lontani dalle coste libiche, ci fermammo per cinque giorni, fummo chiusi in una baracca di lamiera incandescente al sole del giorno e gelida di notte. Ci lasciavano uscire solo per espletare ai nostri bisogni fisiologici e spesso ci seguivano. Hasina mi sembrava strana, il suo fisico era sempre stato esile ma appariva ancor più debole, dimagrit. Chiesi aiuto, chiesi di un medico ma nessuno mi ascoltava, nessuno voleva ascoltarmi. L’indomani ripartimmo, come sempre all’alba e naturalmente ci toccò pagare il nuovo trasportatore. In quella occasione vollero da me quattrocento dollari. Avevo già pagato millecinquecento dollari e non sapevo neanche se avremmo raggiunto la costa”.

Ai giorni trascorsi in una casupola di lamiera seguì un estenuante viaggio in Jeep. Il cassone era stato allargato con lunghe tavole di legno, in modo da riuscire a far salire oltre cinquanta persone. Hasina era sempre più fiacca e non riusciva a ingerire le poche gallette che i trasportatori le avevano concesso: aveva forti dolori allo stomaco, sicuramente per via di una gastroenterite causata dall’acqua sporca.

“Ricordo il suo sguardo rivolto a me, la sua silenziosa richiesta d’aiuto. Ma non c’era nulla che potessi fare, se non sperare di arrivare presto al posto di imbarco, dove mi auguravo di trovare le medicine adatte. Scese la notte e dato che mancava poco alla meta, non ci fermammo. Il sonno dominò le nostre rabbie e le nostre speranze e così anch’io mi concessi un po’ di riposo, forte del fatto che trovandoci in mezzo al gruppo saremmo state protette da eventuali sobbalzi”.

‹‹Mi svegliai con il sole già alto, Hasina aveva gli occhi chiusi e il suo capo penzolava senza forze. Chi mi era vicino mi guardava con invadenza, io avevo compreso ma speravo non fosse successo: provai a chiamarla, prima piano poi urlando, ma non c’era più vita in lei. Chiesi a chi mi stava attorno cosa dovevo fare, chiesi all’autista di fermarsi, ma non ricevetti alcuna risposta. Poi qualcuno mi rivolse la parola: era un uomo alto, molto robusto, mi disse che era un cattivo segno, che la bambina era infetta e che presto avrebbe contagiato tutti. Non capivo, non capivo cosa volesse dire, cosa volesse che io facessi. E così si avvicinarono altri due uomini e mi dissero chiaramente che il corpo della bimba non poteva stare sul mezzo e che se non mi decidevo in fretta avrebbero buttato giù anche me. Buttato››.

“Buttarlo via, questo era quello che mi ordinavano. Non ci saremmo fermati per seppellire mia figlia, ma lo avremmo gettato via dal mezzo in corsa. Restai stupita: non riuscivo a credere che si potesse chiedere questo e così mentre io guardavo le loro facce, sperando in un segno di clemenza qualcuno mi tolse Hasina dalle braccia e la buttò fra le sterpaglie di quel posto arido. L’unica clemenza che mi fu usata fu quella di nascondermi il gesto, coperto dalle schiene degli altri viaggiatori”.

Due giorni dopo arrivarono al posto di imbarco. Le donne erano soltanto due, quindi vennero destinate alla partenza, immediatamente. Un tipo basso, tarchiato e dallo sguardo insolente chiese ad Ayana altri millecinquecento dollari e le sue scarpe. Sotto la cintura dei pantaloni, una pistola malcelata.

Trascorse le ultime umiliazione su un gommone, poi, dopo solo un giorno le venne incontro una nave, una nave militare minacciosa. Ayana non poteva saperlo, ma il peggio era passato.

Dopo qualche ora la nave si avvicina e possono finalmente salire a bordo. Qui altri migranti provenienti dalla Somalia e Eritrea. Finalmente potrà lavarsi e sorseggiare acqua pulita. A bordo c’è anche una madre con due bimbe, una somiglia proprio ad Hasina.

“Ci addormentammo. Dormimmo profondamente, accovacciati fra paure, fantasmi e speranze spezzate. Al risveglio, ognuno di noi si iniziò a prepararsi allo sbarco: presentarsi alla nuova terra in maniera dignitosa è fondamentale e così, dopo essermi pettinata e aver indossato una giacca pulita, mi appoggiai al bordo della nave in attesa di nuove disposizioni. Di fronte a me la mamma con le due bambine, una sembrava proprio Hasina: non potevo far altro che aprire ancora una volta lo zaino ed estrarre il vestitino colorato che avevo riservato a mia figlia, quindi porgerlo alla donna insieme ad un fermaglio per capelli con un fiore rosso di carta. Lei comprese ogni cosa, nonostante abbia evitato il mio sguardo. Probabilmente, non aveva il coraggio di concedermi più di una rapida occhiata. Si limitò ad allungare la mano in segno di accettazione, mentre io accarezzavo la sua bambina”.

E’ passato più di un anno dallo sbarco, mi sono fermata nella città che mi ha accolta, lavoro come interprete, “la tua patria è dove lavori”

Ci lasciamo senza neanche una stretta di mano, sono troppo intimidito dalla forza del suo racconto, la guardo a lungo andare via, pago per un thè che non ho mai bevuto

DS