Il Manzoni tradotto in siciliano

‘I promessi sposi’, l’opera di Alessandro Manzoni cui si collegano i pomeriggi di una gioventù trascorsa sui libri. Il celeberrimo ‘mattone’ con cui ogni studente ha dovuto, volente o nolente, fare i conti negli anni della scuola. Oggi, questo pilastro della letteratura italiana, opera dalla grandezza indiscussa, questo ‘passaggio obbligato’ della carriera scolastica dei liceali, si trasforma ne ‘I Prumissi spusi’. Una trasposizione in vernacolo siciliano, in cui le vicende dei famosi sposini della letteratura vengono raccontate non solo in dialetto, ma anche in rima.

L’iniziativa viene dall’estro del messinese Martino Taviano, un impiegato di banca che dai 48 anni comincia a concentrare la passione per la Sicilia, i suoi dialetti e la sua storia, in un’attività che unisce la produzione poetica alla traduzione in vernacolo di commedie.

‘I prumissi spusi’, edito da EDAS, rappresenta la scommessa di un Taviano che ha voluto confrontarsi con un’opera simbolo della letteratura italiana, anche per renderla più fruibile e allettante per quanti rabbrividiscono al pensiero di approcciarsi nuovamente al Manzoni.

Ciò che viene fuori dall’esperimento letterario del Taviano, è una trasposizione che rende la storia degli amanti più famosi della letteratura incredibilmente leggera, senza perdere la poesia e il pathos che hanno reso grande l’opera originale. Pur confrontandosi con una produzione che ha gettato le stesse basi della lingua italiana, contando ristampe testimoni della maniacale ricerca della perfezione manzoniana, Taviano non appare come un ‘violentatore’, tutt’altro. Il suo non è un tentativo di tradurre in maniera fredda e apatica un testo dalla grandezza che inibisce. Al contrario, l’operazione compiuta vede un’originalità provenire dall’aver preso spunto dal Manzoni e dalle sue parole, per reinventare un’opera che viene così filtrata attraverso la potenza espressiva del dialetto. Il risultato vede il formarsi di scene che sembrano venir fuori dai vicoletti della Sicilia dell’ ‘800. I dialoghi, le descrizioni paesaggistiche, le caratterizzazioni dei personaggi creano una storia  tutta siciliana. Le commari, il prelato, i bravi sono perfettamente colorati da raffigurazioni tutte siciliane, pur mantenendo un’ambientazione lombarda. Perpetua viene pregata di non “curtigghiari”, Don Abbondio diviene “ddù mischineddu”. Le descrizioni dei bravi e di Don Rodrigo poi, sembrano rievocare una realtà non troppo lontana, quella di una mafia fatta di lupare e signorotti potenti. I bravi sono i “battituri ‘i purticatu” e Don Rodrigo, neanche a dirlo, “si sapi, di tuttu lu cuntadu, è certu ‘u cchiù putenti, ‘u cchiù timutu”. Il dialetto risponde così alla sua natura di espediente letterario capace di conferire un’espressività unica, non raggiungibile con semplici descrizioni, per quanto minute. Le stesse caratterizzazioni paesaggistiche sono caricate di un’emotività straordinaria. La casa momentaneamente abbandonata da Lucia, guardata con gli occhi pieni di lacrime, diviene “la casuzza”. Il Taviano non si risparmia neanche nell’uso di proverbi e detti della tradizione, elementi che contribuiscono così alla già prepotente emotività della composizione. Una composizione che così suscita il riso, trasformando lo scolastico ‘mattone’ in un’opera piacevole e apparentemente leggera. Apparentemente, perché il dialetto e la rima caricano di enfasi non solo le sezioni in cui Don Abbondio appare il personaggio goffo e ridicolo. La lingua della tradizione aiuta anche ad aumentare in modo quasi commovente l’emotività delle scene più toccanti. La madre della piccola Cecilia, morta di peste, porta in braccio la figlia, la “piccitta” senza vita, “cu ‘dda gran dignità chi ‘n facci avia”. Rientrando in casa dopo aver consegnato il corpicino ai monatti, abbraccia l’altra figlia malata sopra il letto, “spittann’ a’ morti, çiuri tagghiatu ‘i nettu”.

L’intero lavoro appare come una rielaborazione, un’interpretazione che dà origine a un’opera tutta nuova, pur nel rispetto di un Manzoni che non appare come detto ‘violentato’ ma, al contrario, rielaborato in modo assolutamente rispettoso. Come affermato dal premio ‘Vann’Antò’ Giuseppe Salvadore, invitato a leggere e commentare alcuni passi del libro durante la presentazione presso il ‘Circolo dei canottieri Thalatta di Messina’, “il Taviano ha compiuto un vero e proprio lavoro di sceneggiatura e regia. Le scene lasciano quasi percepire i toni di voce dei personaggi e un occhio di bue immaginario stringe su di essi in maniera magistrale. Le poche parole utilizzate lasciano da parte il superfluo evidenziando il necessario. In maniera del tutto originale, l’autore ha solo preso spunto dal Manzoni, e ha saputo reinventare l’intera vicenda”.

L’intervento del tutto personale del Taviano può leggersi nel finale, interamente autografo. Citando ancora il Salvadore, “Taviano fa scorrere i titoli di coda”, riepilogando le vicende tramite un excursus sui personaggi incontrati da quei giovani promessi, meglio descritti come “ ‘sti carusi”, o ancora, “spusi non cchiù prumissi”, ma, finalmente insieme, “felici e stracuntenti”.

Gaia Stella Trischitta