il piacere di chiamarsi Nino, i ricordi di Monica

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Antropologo di fama internazionale e autorevole studioso delle tradizioni popolari siciliane, il Professor Nino Buttitta si è spento la notte del 3 Febbraio, all’età di ottantaquattro anni. Nino era conosciuto per le numerose pubblicazioni e per le illuminanti lezioni che anno dopo anno impartiva agli studenti dell’Università di Palermo, ma non solo: massimo promotore della Fondazione Ignazio Buttitta, ne ha consentito la crescita e ha permesso che venisse conosciuta da un numero sempre maggiore di persone. “La Fondazione non era né di mio marito né sua, era ed è tuttora di tutti. Nino ne era entusiasta.” Monica Modica, nuora del Professor Buttitta e conosciuta per il suo attivismo nel sociale, ricorda alla nostra redazione l’ardore e la positività del suocero. “Voleva che tutto venisse devoluto all’associazione, ne andava fiero. Una volta è venuto a casa mia e ha dato un’occhiata al tappeto che tenevamo in salotto – prosegue Monica, quasi divertita – era un bel tappeto, pregiato e di buon gusto. Voleva che andasse alla fondazione, senza né se né ma. Eppure mi sono opposta ed il tappeto è ancora al suo posto, è stata una delle poche battaglie che ho vinto con lui.”

Un uomo tutto d’un pezzo, d’indole non proprio conciliante ma di grande generosità. “Si donava interamente alle persone con cui intesseva una relazione affettiva – ci confida la nuora – Finiva quasi per appartenere alla gente che amava. Mio suocero era di tutti.” Passionale, dietro una maschera d’autoritarismo che i primi mesi aveva intimorito anche Monica. “Quando ho conosciuto i genitori di mio marito Elsa, sua madre, sì è mostrata subito cordiale e amichevole: mi ha chiesto di darle del tu e di chiamarla per nome. Non so come mai, ma ero convinta di poter fare lo stesso con Nino, mi sbagliavo. ‹‹Io sono il Professor Buttitta›› mi ha detto con un’aria sorniona che ancora non avevo imparato a conoscere. Mi ha spiazzato, lo ammetto.” Mentre ricorda il suo primo incontro con il professore, Monica non appare affranta né abbattuta. Sembra quasi sorridere, all’altro capo del telefono. “Anni dopo, inaspettatamente mi ha chiesto di smetterla con quel tono reverenziale e di chiamarlo padre. ‹‹Sei l’unica figlia che ho scelto››, mi ha detto con una naturalezza che mi ha lasciato sbigottita.” E così si è guadagnata il suo ingresso in famiglia, una famiglia fatta di discorsi concitati fra giganti astuti e sagaci.

“Ciascuno di loro aveva una grandissima forza, intellettuale e caratteriale. Durante i nostri frequenti incontri sembrava quasi che più attori principali venissero spinti ad andare in scena nello stesso momento: gli scontri erano immancabili, soprattutto fra i miei suoceri. Eppure ogni discussione, per quanto accesa potesse essere, era animata da un profondo rispetto reciproco.” Un rispetto che ha il sapore dimenticato di lontane giornate in cui i dibattiti non lasciavano spazio alle urla e le diverse prospettive non erano idiozie, ma solo opinioni. “Da Nino non ho imparato nulla di accademico: ciò che mi è stato insegnato non ha nulla a che vedere con il nozionismo o con lunghe lezioni cattedratiche. Lui e Antonio mi hanno innanzitutto insegnato il valore del confronto costruttivo e l’imprescindibilità di un autonomo spirito critico.” L’Antonio a cui Monica allude è il fondatore del Museo Internazionale delle Marionette, Pasqualino. “È stato l’unico personaggio con cui ho avuto il piacere di confrontarmi, più volte aggiungerei. Lo conoscevo ancor prima di fidanzarmi con il mio attuale marito, anzi è stato proprio grazie a lui e a suo figlio Guglielmo che Nino piccolo è entrato nella mia vita.” Monica mi spiega che quell’epiteto è sempre stato usato in famiglia per distinguere il defunto professore dal figlio. “Inizialmente mi opposi all’idea di chiamare uno dei nostri figli con il nome del nonno.

Come li avremmo chiamati poi? Nino, Ninetto e Ninettino?” La donna sorride ancora una volta, forse ricordando qualche simpatica baruffa con il marito, ma poi prosegue. “Alla fine ho capitolato: uno dei miei bimbi si chiama proprio Antonino, o meglio Antonino Gabriele. Ricordo che a scuola mostrava con fierezza la statuina in plexiglass che mio suocero gli aveva donato qualche tempo prima. Professor Antonino Buttitta, c’era scritto in neretto. E il mio piccoletto si sentiva grande, mentre il nonno si donava a lui al punto tale da cedergli la sua identità.”

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