Il porto franco della mafia

«Messina è università, Palermo è scuola elementare della mafia». Angelo Siino, chiamato il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, dipingeva così la situazione della criminalità siciliana.

La testimonianza, riportata dal magistrato Marcello Minasi che allora lo interrogò, lascia chiaramente intendere come la storia della “città babba” riferita al capoluogo dello Stretto fosse inverosimile.

Il suo successo è dovuto all’interesse di Cosa nostra – ma anche della ‘Ndrangheta – di mantenere la città porto franco per i suoi affari loschi. Un “cuscinetto” al riparo dagli sguardi indiscreti di magistrati e giornalisti.

Gli equilibri pervicacemente mantenuti in riva allo Stretto, infatti, hanno permesso al sottobosco criminale di agire senza destare clamore e attirare le attenzioni delle forze dell’ordine, come invece è accaduto a Palermo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Ma quella frase pronunciata da Siino decenni fa, allora sembrò quasi una provocazione. Sulla sua veridicità, adesso, Marcello Minasi ha avuto un ripensamento.

«A distanza di molti anni mi sono accorto che lui era un profondo conoscitore ed era addentro ai meccanismi della mafia. Quello che mi disse era vero» spiega l’ex magistrato, ora in pensione.

«Messina ha brillantemente convissuto con la mafia facendo finta di contrastarla» è la sua amara constatazione.

Secondo Minasi la mafia in città sarebbe molto più di bassa manovalanza al servizio di Cosa nostra palermitana o catanese. «Apparentemente l’economia della città si regge tutta sugli stipendi che a fine mese si danno agli insegnanti e ai dipendenti pubblici e sull’Università, che è l’unica “industria” rimasta, ma non è così: questo è il livello legale e apparente dell’economia. Poi c’è un secondo livello».

Un livello di interessi torbidi, gestito da una mafia capace di controllare il territorio e che conta su una ampia impunità, basato sul traffico di armi e stupefacenti e sul riciclaggio di denaro sporco.

Messina è una Tangeri dei nostri tempi, per Minasi: un luogo dove tutto è permesso, come nella cittadina vicino Casablanca durante la Seconda guerra mondiale.

La sua visione della città ricorda la definizione che ne diede l’allora presidente della Commissione antimafia, Nichi Vendola, in una visita in riva allo Stretto: un “verminaio” – disse Vendola – dove basta spostare una pietra per fare emergere uno scandalo. La cronaca degli ultimi tempi, dall’inchiesta sulla formazione che ha investito la famiglia Genovese, a quella sull’università, sembra dare loro ragione.