IL RAMADAN SPIEGATO A NOIALTRI

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Nadia. Occhi stanchi e pelle scura, il volto incorniciato da due ciuffi ribelli che sbucano fuori dallo chador. Ogni mattina sorseggia in silenzio un caffè, seduta al tavolo della cucina, senza fretta. Pochi minuti solo per sé, prima che il mondo intero si risvegli dal torpore della lunga notte appena trascorsa.

Istanti piacevolmente vuoti che precedono giornate frenetiche e stancanti.

Eppure oggi Nadia dovrà rinunciare al suo caffè, alla borraccia colma d’acqua che spesso porta con sé e alle sigarette che nasconde sul fondo della borsa, lontano dalla vista delle figlie. Dovrà rinunciarvi, almeno sino al tramonto. È Ramadan, mese di digiuno: niente cibo né acqua sino al calar del sole, nemmeno il fumo è ammesso. Bisognerà attendere la sera per il primo pasto della giornata in compagnia di famiglia ed amici, nulla potrà essere ingerito o deglutito prima che faccia buio.

 

Idriss: dal Sudan a Messina

Basta sentir parlare di digiuno per gridare all’integralismo, almeno per la gran parte di noi. Non mangiar nulla per dodici lunghe ore senza rinunciare alle attività quotidiane sembra impossibile a molti, eppure c’è chi sa fare a meno di un buon piatto di pasta per pranzo.

Ma le rinunce non finiscono qui: “Il Ramadan non ha a che fare soltanto con il cibo, ma con l’idea di privazione – spiega Idriss, originario del Sudan – Molti credono che al tramonto ci rimpinziamo di qualunque cosa ci capiti a tiro, ma non è così. Mangiamo con moderazione, senza gratificare eccessivamente il nostro corpo. Se passassimo la notte ad abbuffarci, il Ramadan perderebbe di senso. Sarebbe semplicemente una variazione di orari, nulla a che vedere con la devozione.” Niente scorpacciate dunque, né eccessi di altro genere. Durante il Ramadan ogni manifestazione di vanità o lussuria è messa al bando: alle donne non è concesso dedicarsi a trattamenti estetici e durante il giorno persino un abbraccio fra coniugi è proibito. “Guardare mia moglie e sapere di non poterla stringere a me è una delle rinunce più grandi. Serve a ricordarmi che tutto ciò che ho adesso è un dono, nulla dev’essere considerato abitudine o quotidianità. Il cibo, gli affetti, un bell’abito: sono opportunità, privilegi. Durante il Ramadan me ne rendo conto più che mai”. Idriss ha sposato una donna italiana, la loro è una di quelle famiglie dove si impara a far tesoro delle differenze, ci si spalleggia anche senza combattere la stessa battaglia. “Mia moglie mi sostiene, non si è mai scomposta né ha mai protestato durante i miei digiuni – ci racconta Idriss, proprio mentre la donna gli passa accanto – anche se non rinuncia alle sue abitudini. Sostiene di non farcela, forse perché le motivazioni non sono le stesse”.

“Mia figlia ha solo nove anni – aggiunge poi con una punta d’orgoglio – eppure è riuscita a condurre i ritmi prescritti dal Ramadan. Certo, è durato soltanto pochi giorni, ma del resto è piccola. Sono gli adulti a dover digiunare durante il giorno, uomini o donne che siano.” E l’età adulta non è l’unico requisito necessario: bisogna essere in buona salute, altrimenti si potrebbe rischiare la vita. “Nel 1956 in Sudan è stato proibito ai musulmani di praticare il digiuno. Il caldo era eccessivo e le forze mancavano, sono morte delle persone. A chi insisteva per portare a termine il Ramadan, veniva spiegato che in questo modo la devozione di sarebbe trasformata in peccato, in un insulto al proprio corpo. Ogni cosa va fatta con criterio, se le condizioni lo permettono.” Un’elasticità forse inaspettata, sconosciuta ad un mondo occidentale che innalza barriere e traccia confini, bandendo ogni forma di dialogo. “La nostra è una cultura molto meno intransigente di quanto si creda. Basti pensare al periodo del secondo califfato, dopo il profeta Mohammed: in momenti di carestia, quando la gente rubava per fame, l’applicazione della “legge del taglione” è stata sospesa. Chi non aveva nulla da mettere sotto i denti era costretto a trafugare qualcosa, non aveva altre possibilità. Ebbene, i governanti lo capirono e fermarono una pratica punitiva in uso da secoli: è accaduto ben 1400 anni fa, molto prima che la politica si evolvesse, che i popoli si emancipassero. Eppure oggi per un furto di pochi euro al banco frigo del supermarket, si finisce in cassazione.”

Idriss ci parla di una flessibilità sconosciuta, volutamente nascosta da un coacervo di pregiudizi e paure. Si tratta di un grado di tolleranza forse estraneo persino al cattolicesimo, comunque molto lontano dall’intransigenza di cui l’Islam viene quotidianamente accusato.

 

La parola all’avvocato

“Ogni religione ha i suoi precetti, un certo numero di pratiche a cui attenersi e dei rituali da rispettare – asserisce Pietro Giunta, avvocato con un debole per il mondo arabo – gli Ebrei hanno delle non indifferenti limitazioni in fatto di cibo, mentre ai Cristiani è prescritto di non mangiare carne durante la Quaresima. Dovremmo ricordarcene, prima di inorridire dinnanzi al digiuno previsto durante il Ramadan.” Nonostante le sostanziali analogie, alzare paletti è più semplice che costruire ponti: la mediazione è un’arte e l’accoglimento una rarità. “La religione ebraica e quella islamica condividono persino l’origine – continua Giunta – Ismaele, capostipite della popolazione araba non è che il figlio della schiava di Abramo. Eppure si continua a lottare, in un’eterna faida che tormenta Gerusalemme da decenni e che non accenna a spegnersi.”

Una guerra di logoramento alimentata da un odio ammantato di religiosità, che nasconde la sete di dominio dietro malsane forme di devozione.

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