“Follia a Potenza, uccide moglie e figli e si spara”.
“Raptus di follia, spara a moglie e figlio e si suicida”.
“Uccide il figlio soffocandolo <<Sono stato colto da un raptus>>”.
“Raptus di follia. Accoltella la moglie, poi si uccide”.
“Salerno, raptus di gelosia: uccide moglie e figlioletto”.
“Anziano in preda a un raptus di follia uccide la moglie, ferisce il figlio e poi si spara”.
“In preda a un raptus uccide la madre a bastonate e poi si costituisce ai cc”.
“Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia”.
Sì, perché affermare che un atto di violenza si è verificato per via di un “momento di follia”, per via di uno stato depressivo, un raptus appunto, equivale a giustificare il reato.
Da criminologa e da donna sono stanca di ascoltare e di leggere di vicini di casa, giornalisti e tuttologi che, con l’ultimo atto di crudeltà, si professano psichiatri di turno e stilano il profilo del reo definendolo “una persona tranquilla”.
Ebbene, non dormirei sonni tranquilli, perché il vostro vicino che ha appena assassinato la moglie e/o i figli e/o i genitori è crudele, malvagio, affetto da tempo da una patologia. Tutto questo non è scoppiato in un istante. È sempre stato tutto lì. È cresciuto, si è modificato, si è evoluto e poi è venuto fuori nel peggiore e nell’irrimediabile dei modi.
Quando parliamo di “raptus”, mettiamo la violenza inaudita, quella imprevista, impulsiva sotto il consenso terminologico. Ma guarda caso, proprio quella violenza, ha sempre come oggetto le persone più fragili, quelle che non si possono difendere rispetto a chi sta perpetrando il reato. Abbiamo mai sentito parlare di un soggetto colto da raptus nei confronti di qualcuno più forte e grosso fisicamente?
Il “raptus” non esiste. È un termine abusato da chi stila perizie, per vanificare la colpa di chi commette azioni di grande violenza. Bisognerebbe spolverare i sussidiari di educazione civica che tanto amavo quando ero bambina e rieducare la civiltà affinché questo non accadesse. Non bisogna giustificare l’efferatezza di un crimine, la prevaricazione contro i più deboli. Giustificare è come avallare l’idea che la violenza si può “accettare” di più se commessa in un momento di pazzia.
Ebbene sì, sono filo Lombrosiano, lo ammetto! Ma nell’accezione più vicina alle scienze del cervello, non di certo alla fisognomica. Perché? Perché l’essere umano è il suo cervello e ognuno di noi è un possibile assassino.
Oggi il proliferare di ricerche mostra un ritorno d’interesse imputabile alle neuroscienze criminali, probabilmente dovuto alla possibilità di avvalersi di metodologie e tecniche nuove per lo studio neuro-anatomico e neuro-funzionale del comportamento degli individui, che hanno un margine di errore estremamente ridotto rispetto al passato.
Vi è un confine tra deficienza o inabilità mentale e l’essere vittima ma anche tra deficienza o l’inabilità mentale ed il profilo del reo. Esistono alcuni genotipi che sono stati associati ad un comportamento sociopatico, più genericamente criminale, o ad un comportamento aggressivo che può sfociare, in determinate condizioni ambientali, in un comportamento violento nei confronti del prossimo. Ecco perché l’avere un profilo genetico di questo tipo non individua un criminale, in quanto è necessario che la genetica interagisca con l’ambiente affinché si determinino delle condizioni particolari e, non meno importante, è necessario che vi sia una vittima.
Quando vengono analizzati, tali profili genetici si intendono come alterazioni genetiche che si possono riscontrare nella popolazione umana, ma che predispongono i soggetti ad un’alterazione della funzione della parte frontale del cervello, ovvero quella che ha più strette relazioni con il comportamento normale e patologico. Le alterazioni genetiche sono alterazioni che modificano il metabolismo, ad esempio il destino di un neurotrasmettitore come la Serotonina che regola non solo il mantenimento del tono dell’umore ma anche il comportamento aggressivo che risulta fisiologico entro certi limiti ma patologico quando non riesce ad essere controllato. Quindi, se la Serotonina non viene ben metabolizzata, cioè non utilizzata dal nostro cervello, finisce con l’accumularsi determinando un comportamento fuori controllo, disinibito e disancorato dalle regole sociali fino a diventare aggressivo e violento.
Anche nell’analisi delle regioni più profonde del cervello emerge qualche differenza tra soggetti criminali o psicopatici e soggetti normali, poiché nei primi si nota una maggiore attivazione dell’Amigdala, regione cerebrale coinvolta nel comportamento emozionale sia quando i soggetti devono decifrare ed interpretare correttamente le emozioni in ricezione, sia quando devono esprimere le proprie; è per questo che i soggetti senza amigdala sono apatici e inerti, reagiscono poco agli stimoli esterni, trattandoli senza alcuna valore emozionale; contrariamente individui con iperattività dell’amigdala mostrano un comportamento esagerato sia nella decodificazione di emozioni provenienti dall’esterno sia nell’espressione delle proprie emozioni.
Un altro importante dato è ravvisabile dall’analisi volumetrica della corteccia prefrontale: confrontando soggetti psicopatici, che hanno commesso un omicidio, con soggetti psicopatici che non hanno commesso alcun reato, emerge l’esistenza di un ridotto volume della materia grigia nei primi.
L’elemento più interessante è la non indispensabilità di una patologia mentale o di una disabilità mentale manifesta, per riscontrare alterazioni genetiche che in un caso remoto possono portare ad un comportamento antisociale. Se si effettuasse un’analisi di risonanza magnetica funzionale su un numeroso campione, esponendo i soggetti a stimoli critici con valenza emozionale, si riscontrerebbe che un ristretto gruppo dei soggetti presenta una soglia di attivazione anormale di quelle aree che vengono definite critiche per il comportamento aggressivo.
Quindi, se uno di questi soggetti fosse un giorno sospettato di omicidio, saremmo autorizzati ad avvalerci di questi risultati in sede processuale o investigativa, anche se un’indagine individuale su più fronti (psicologico, neurologico ed investigativo) potrebbe fornire un miglior quadro del soggetto, permettendone un miglior utilizzo in campo processuale.
Il comportamento deviante è appreso attraverso gli stessi processi con cui gli esseri umani apprendono i comportamenti conformi: interagendo con altre persone in un processo di comunicazione, gli individui acquisiscono le tecniche per mettere in atto il comportamento deviante, le motivazioni, nonché le razionalizzazioni per giustificare tale comportamento.
Mentre il comportamento conforme e quello deviante sono appresi essenzialmente nello stesso modo (cioè attraverso l’interazione sociale), i contenuti, di ciò che si apprende, dipendono dai modelli di comportamento che sono trasmessi all’interno delle relazioni sociali che le persone intrattengono nei contesti in cui vivono: negli ambiti in cui si sviluppano e si consolidano tradizioni culturali devianti, gli individui hanno maggiori possibilità di entrare in contatto con soggetti devianti e quindi di acquisire modelli di comportamento deviante.
Devianza, disturbi mentali, frustrazione, aggressività, depressione, disturbi della personalità, psicosi, sono tutti il prodotto del nostro bagaglio genetico, delle nostre relazioni sociali, di tutti gli eventi che modificano il nostro stato d’animo. Quindi, questi meccanismi innescati dal tempo, non possono nascere e morire in un solo atto criminale, in quell’unico momento della nostra vita, neutralizzando il peso che questo pesante bagaglio ha su ognuno di noi. Sicuramente può essere la miccia, ma di un filo di dinamite lungo quanto i nostri anni, che inevitabilmente ci riporta al momento della procreazione.
La ricerca genetica, stimolata dalle osservazioni effettuate con i nuovi strumenti neuroradiologici, ha puntato quindi l’attenzione su un disturbo di personalità che appare come una diretta emanazione di un temperamento criminale geneticamente determinato: il Disturbo Antisociale di Personalità. Cardini diagnostici di questo disturbo di personalità sono appunto il mentire, imbrogliare, truffare continuamente tutte le persone con cui si ha a che fare, violare continuamente la legge, senza provare il minimo senso di vergogna o di rimorso. Sono soggetti che da sempre sono studiati dagli psichiatri e dai criminologi, i quali hanno coniato per loro inizialmente il termine psicopatico e poi successivamente sociopatico. Si è ritenuto per molto tempo infatti che il disturbo della condotta fosse determinato da condizioni sociali (soggetto quindi sociopatico), tuttavia gli studi effettuati di recente sull’assetto genetico e cromosomico di questi soggetti hanno spostato l’attenzione dal sociale all’individuale, identificando le cause della condotta criminale nella struttura della personalità.
Il condizionamento genetico determina lo sviluppo di condotte devianti ed antisociali già nella fase adolescenziale, contribuendo in modo sensibile alla criminalità minorile, proseguendo tali condotte anche nella vita adulta.
Il condizionamento sociale ed ambientale, dal canto suo, è attivo sì nella vita adolescenziale, tuttavia i suoi influssi nelle condotte adulte solo molto scarsi, per cui l’ambiente sociale risulta essere anch’esso determinante nelle condotte devianti minorili, ma non nelle devianze dell’adulto.
C’è, senza dubbio, il rischio quindi di sovrastimare queste risultanze biologiche dimenticando che la predisposizione genetica chiede comunque un completamento ambientale per potersi esprimere e che esistono anche conoscenze su condizionamenti in grado di ridurre ed annullare gli effetti della predisposizione genetica. Tutto questo chiede ulteriori studi, comunque in atto sia negli Usa che in Europa, e cornici giuridiche più evolute ed aggiornate, a tutt’oggi neanche ipotizzate dal legislatore italiano più illuminato.
Senza voler ulteriormente scendere e rischiare di “toccare” la sensibilità di quanti differiscono da questo pensiero, sarebbe auspicabile esprimersi più cautamente nel parlare di un soggetto che ha commesso un omicidio. Il cervello umano è la Terra Promessa di quanti hanno speso la loro vita e la loro morte per rispondere ai quesiti dell’universo. Al di là se l’essere umano nasce o diventa criminale, non dobbiamo dimenticare che lo stesso essere umano non è “posseduto” da un demone quando decide di togliere la vita ad un suo simile. È lui il demone di se stesso. E lo è da tempo.
Ma nessuno lo ha mai voluto capire. Tanto meno i “vicino di casa”.