Al giorno d’oggi parlare d’immigrazione significa affrontare un tema dalle diverse sfaccettature che può essere osservato e approfondito nei suoi svariati aspetti. Analizzare un fenomeno così complesso non è mai facile, soprattutto quando si cerca di metterlo in relazione con l’informazione e i mass media. Proprio i mezzi di comunicazione di massa svolgono un ruolo fondamentale nel nostro rapporto con l’altro, per la grande quantità d’informazioni che riescono a fornire. Molto spesso infatti, sulla base di quello che vediamo o leggiamo, costruiamo la “nostra” figura dell’immigrato. Accendendo la tv o sfogliando i giornali, è facile accorgersi di come, molte volte, il mondo dell’informazione nella rappresentazione dell’immigrato tenda a riflettere su pericolosi “pregiudizi” e perpetrarli o addirittura amplificarli. L’immigrato è il più delle volte, descritto come un soggetto violento, un assassino, un vero e proprio “nemico” da cui difendersi. Come studiato dal sociologo Marcello Maneri, i giornali nel rappresentare l’immigrazione utilizzano spesso lo “sguardo” del paese d’arrivo. «La prospettiva è sempre quella di un “noi” che definisce il “loro” come problema, tanto che sui mezzi d’informazione per indicare i fenomeni migratori si utilizza una frase nominale estesa che contribuisce a sottolineare la negatività del fenomeno: il “problema immigrazione”». Il “pubblico” viene inevitabilmente condizionato dalle forme grammaticali utilizzate per descrivere le azioni di questi “individui”: essi sono soggetti attivi, agenti, di azioni negative o problematiche (sbarcano, uccidono, rapinano) oppure soggetti che richiedono operazioni, atti amministrativi, politiche di controllo (identificati, sgomberati, espulsi). É facile qui, ricorrere al rapporto di causalità, tra l’azione del governo e il problema dell’immigrazione; proprio quest’ultimo infatti, richiede questi “atti”, necessari e talvolta insufficienti, con i quali la società si “difende”. Una volta lanciato l’allarme dai mezzi di comunicazione, infatti, sono altri gli attori, spesso istituzionali e quasi sempre politici, affetti dalla “smania” di cavalcare una minaccia simbolica per proporre soluzioni, certificando il “pericolo”. Mi riferisco ai politici che fanno business alimentando le peggiori inquietudini sociali senza avere alcun interesse a soluzioni civili e razionali, ma al solo fine di ottenere il consenso elettorale. A questo dobbiamo aggiungere che, nei giornali non è raro trovare notizie, in cui l’immagine dell’immigrato assuma contorni positivi. Quando ad esempio, si parla delle seconde generazioni, dell’imprenditoria etnica o delle iniziative sul territorio promosse dagli immigrati. In questo caso, però, non solo è possibile trovare gli articoli di riferimento nelle ultime pagine, all’interno delle sezioni dedicate alla cultura o agli spettacoli, ma questi episodi non vengono considerati fatti importanti, non provocano dichiarazioni politiche o dibattiti, non influenzano il comportamento delle istituzioni. Per completare il processo infine, si tende ad affiancare a questi soggetti “negativi”, una procedura di tematizzazione che etnicizza tutto ciò che è problematico, negativo e minaccioso attraverso differenti strategie di generalizzazione. Chi commette un reato viene invariabilmente nominato, quasi sempre anche nel titolo, attraverso un appellativo di nazionalità o che ne esplicita la condizione di straniero. Ed è cosi che una persona di nazionalità albanese viene definita dai media “albanese” se a 14 anni ruba un videogioco al supermercato, ma ottiene la promozione a “operaio” se invece cade da un impalcatura e muore. Inoltre, nei giornali mancano le voci degli immigrati, le loro opinioni e riflessioni: gli stranieri sono soltanto oggetto delle notizie, non hanno spazio per spiegare o farsi conoscere. Pertanto, in un sistema, in cui la notizia, in genere, è una “merce” da vendere ad un pubblico visto come un insieme di potenziali consumatori di prodotti culturali, l’alternativa sembra essere il richiamo ad un’etica dell’informazione che imponga il dovere di riferire al pubblico con obiettività cose vere. Il punto da cui partire, quindi, è la «corretta informazione», ossia comunicare il fenomeno migratorio per quello che realmente è: non un “problema sociale” o un’emergenza causata dall’«invasione» di migranti, come è stato fatto pochi mesi fa per gli sbarchi a Lampedusa, ma la possibilità di convivere con persone portatrici di una diversa cultura, dalle quali possiamo imparare molto, sia in virtù di ciò che ci differenzia, sia in virtù di ciò che ci accomuna.Gli «operatori della comunicazione», devono prendere coscienza della propria responsabilità: ciò che arriva al pubblico, infatti, passa attraverso le loro scelte e la loro sensibilità. Se non possiamo considerare i media come diretti ed unici responsabili di ciò che pensano le persone relativamente ad un fatto o ad una situazione, possiamo affermare che forniscono degli schemi interpretativi entro cui collocare fatti e situazioni e che portano quindi, la responsabilità di tali schemi. Appare necessario fare più attenzione all’uso delle parole, soprattutto nei titoli, e smorzare i toni allarmistici che vengono usati, evitare di sottolineare per quanto riguarda gli immigrati, solo gli aspetti negativi delle vicende tralasciando quelli positivi, in ultimo evitare di generalizzare gli episodi (il popolo rumeno non è riconducibile al singolo che violenta una donna). L’obiettivo da raggiungere deve essere l’integrazione. Sicuramente vivere insieme, partendo da situazioni religiose e culturali diverse può creare dei conflitti a livello sociale ma è compito della nostra società affrontare e vincere questi problemi.
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