Intervista a Salvo Vitale

 

Salvo Vitale, compagno di lotta di Peppino Impastato, è un intellettuale a tutto tondo, che oltre alla preziosa attività di testimonianza, alterna quella di scrittore e poeta.

Proprio in occasione della presentazione, a Lipari, dei suoi ultimi lavori, “Svisature” e “Intorno a Peppino”, ne abbiamo approfittato per chiacchierare insieme su molti temi.

D: L’emergenza Covid sta esasperando delle situazioni sociali già difficili, soprattutto   al   sud.   Tutte   le   cassandre   di   regime   annunciano   un   autunno caldissimo. Tu come la vedi?

R: Non mi esprimo sul virus, sulle sue caratteristiche o sulle prospettive, perché, diversamente da molti giornalisti italiani che sanno tutto, non ho conoscenze, né competenze sull’argomento. Da un aspetto sociologico noto che le sue conseguenze sono state quelle di diradare i rapporti sociali, di amplificare maggiormente le distanze, in un’epoca in cui ogni individuo è circoscritto dalla solitudine, dalla mancanza di rapporto, anzi è vittima di un unico rapporto, quello col cellulare, col computer, con la televisione, in una completa omogeneizzazione del modo di pensare e di vivere. Diffidenza verso il proprio simile, possibile portatore del virus. Condanna sdegnata verso chi sceglie di vivere, specie se è giovane, spesso eludendo le regole o ritenendole inutili. Chiusura in sé stessi, senza realizzare quello scambio diretto tra idee concezioni, tipica manifestazione della diversità, della tolleranza che nasce dal confronto e della capacità di aggregarsi, magari con un progetto politico. Non credo in un autunno caldo. Continueremo a galleggiare, come in questi mesi, tra un decreto e l’altro. Con norme più psicologiche che terapeutiche, dilapidando i soldi dell’Europa e dilatando al massimo sopportabile il nostro debito pubblico. Le conseguenze più tragiche si vedranno quando tutto questo sarà finito e se non saremo stati capaci di costruire le basi per un’economia di sopravvivenza autonoma.

D: Leggo da una recente relazione della DIA: Le organizzazioni criminali… si stanno proponendo come welfare alternativo, offrendo generi di prima necessità e sussidi. Con la prospettiva di ottenere consenso, che da un lato aumenta la “rispettabilità” del mafioso sul territorio, dall’altro genera credito da riscuotere come pacchetti di voti in future elezioni. Un certo assistenzialismo le mafie l’hanno sempre fatto, ma era limitato alle famiglie degli affiliati morti o in galera. Se la mafia inizia a fare welfare, rischiamo di perdere intere zone del meridione. Eppure questi segnali d’allarme vengono riportati dalla stampa con molto… pudore, diciamo così.

R: Non condivido certe considerazioni della DIA, spesso improntate a luoghi comuni o al “sentito dire”, altre volte fotocopie di quelle dei semestri precedenti. Non credo che la mafia faccia beneficenza o, se la fa, è solo per chiedere in cambio qualcosa che vale dieci volte in più di quello che offre. Intere zone sono perse da tempo ed irrecuperabili, proprio perché il controllo mafioso del territorio è diventato cauto, silenzioso, discreto, ma inesorabile. In tal senso esistono mafiosi ad alto livello, che non hanno bisogno di particolari consensi, disponendo di un apparato “militare” di protezioni e collaborazioni e mafiosi ormai ridotti con le pezze al culo dalle varie attività di repressione dello stato, in cerca di briciole, da ottenere sempre facendo lavorare gli altri. Al momento il clientelismo politico si è ridotto, poiché la torta da spartire è poca, non c’è trippa per gatti, mentre si punta all’assistenzialismo pubblico cercando di arraffare i contributi stanziati a causa del virus. I mafiosi ci sono dentro perché disponendo di denaro liquido possono, attraverso dei prestanome, acquistare aziende in crisi, ma quando si tratta di mafiosi intelligenti che sanno investire. La maggioranza di loro preferisce distruggere l’azienda che non paga il pizzo, cercando di raccogliere passivamente soldi spremuti dal lavoro degli altri.

D: un’altra relazione della DIA punta il dito sui cosiddetti scappati, i perdenti della guerra tra cosche degli anni ’80, che cercherebbero di   tornare, per riprendersi qualche fetta di potere. Quanto è realistico questo quadro, secondo te?

  1. Gli scappati sono una piccola componente dell’insieme, tornati in un momento e in un territorio in cui i vecchi equilibri sono saltati e se ne sono instaurati di nuovi. Possono contare sul cognome e sulle glorie storiche passate, ma penso siano stati in gran parte tagliati fuori. Non credo che il loro sia un ruolo importante, ove si escludano situazioni marginali che comunque sono sotto il controllo e la sorveglianza degli organi investigativi. Un ruolo di prestigio quindi, ma fuori dal grosso circuito operativo.

D: tra i ritorni eccellenti c’è da segnalare anche l’arresto di Badalamenti jr. Una vicenda su cui tu hai espresso la tua opinione, chiara e circostanziata, ricevendo per questo attacchi anonimi sulle pagine di un certo blog.

R: La vicenda di Vito Badalamenti conferma la precedente risposta. Vito è rimasto, praticamente imboscato e tranquillo, per due anni a Castellammare del Golfo, accanto all’anziana madre. Era in Italia ma nessuno lo sapeva e fingeva di non saperlo. Cosa tipica della maggior parte dei latitanti. Quando ha voluto “riappropriarsi” di una parte di ciò gli era stato tolto e che la magistratura gli aveva restituito, ha provocato le rimostranze del sindaco di Cinisi che l’ha denunciato e che quindi ne ha svelato la presenza. A questo punto si è scoperto che aveva un mandato di cattura internazionale, dal Brasile, del quale lui stesso ha affermato di non essere a conoscenza. In merito al tentativo fallito di creare una polemica con quanto da me scritto, il tutto è legato a un personaggio che ha creduto di usare lo stato per regolare i conti con i suoi parenti, dopo avere dilapidato la sua parte di patrimonio. Non so sino a che punto sia stato responsabile del sequestro dei loro beni, testimoniando di possibili contiguità mafiose, ma alla fine la magistratura ha restituito i beni ai parenti, lasciando il vendicatore a bocca asciutta. Il sottoscritto è colpevole di avere per primo esposto questo caso e di avere sostenuto che non possono esserci due giustizie, quella dei sequestri per prevenzione, sulla base di sospetti e quella ufficiale, ovvero penale.

D: da alcune inchieste molto recenti, sembra che la Mafia abbia delegato alcune attività minori e ben circoscritte, a organizzazioni criminali straniere. Soprattutto alla mafia nigeriana, che a Palermo gestisce attività come spaccio e prostituzione di connazionali. Così, al prossimo arresto, gli elettori di Salvini potranno dire che i migranti portano la droga…

R: È vero, la mafia nigeriana gestisce, ma ormai da molti anni, a Torino, in Veneto, a Palermo, alcuni settori di economia illegale, essenzialmente legati ai trasferimenti illegali di migranti sul nostro territorio, all’avvio di ragazze alla prostituzione e si dice, ma senza prove, persino alla vendita di organi di esseri umani. Tutto ciò avviene con il beneplacito delle organizzazioni mafiose locali, che si servono dei nigeriani come corrieri e come spacciatori al minuto, mantenendoli in una rigida condizione di sottomissione. Non si tratta di migranti, ma di delinquenti di piccola e media taglia, mentre, per quanto riguarda le ragazze il livello di sfruttamento operato dai loro stessi connazionali supera di gran lunga quello delle aziende agricole che si servono dei migranti, anch’essi schiavi, oltre che del “padrone”, dei caporali loro connazionali che ne gestiscono l’impiego. Salvini usa solo strumentalmente il problema, tanto per far voti. Se gli immigrati un bel giorno sparissero dall’Italia molti italiani rimarrebbero con le pezze in culo.

 D: nel tuo ultimo libro, in “Un canto per Falcone” tuoni contro l’antimafia di facciata, delle lapidi e delle commemorazioni. Uno sport sempre più praticato.

  1. L’antimafia di facciata è sempre esistita, anche perché per certi personaggi, non si può fare a meno di far memoria e conservarne il ricordo inscenando qualche cerimonia. È l’antimafia di un giorno l’anno e quella dei complici della mafia, sistemati nei posti giusti, che si verniciano e si agghindano con una bella patina di antimafiosità. Ben diversa e più pericolosa quella dei grandi manager, come i Catanzaro, Montante, Ciancio, la Saguto e il suo entourage, i destinatari di beni confiscati che sono lasciati all’abbandono, i detentori di porzioni di potere, che usano a proprio uso e consumo con modalità criminali. Nei confronti di questa “zona grigia” non sempre si riesce a penetrare ed è questa che costituisce l’anello di congiunzione e il collante della mafia con i vari settori dello stato.

D: Ma è più la mafia, a essere siciliana, o la Sicilia a essere mafiosa?

R: Quella di Sicilia=mafia è un’analogia sbagliata. I mafiosi siciliani, secondo Buscetta, sono circa 5 mila, cifra ben lontana dai 5 milioni di Siciliani. Tra i quali ci sono tantissime persone oneste, corrette, vittime del sistema estorsivo, rispettose della legalità. Io sono siciliano e non ho alcuna voglia di cambiare la mia identità o la mia regione. Né tantomeno mi sento mafioso, nel senso che ho fatto di tutto per “ripulirmi”, come dico nella poesia. Vero è che esiste poi un sistema di alleanze, un reticolo di amicizie e di conoscenze, che avvolge gran parte delle attività produttive e dei posti di lavoro attraverso raccomandazioni, spinte corruttive, agevolazioni preordinate, vertenze legali ecc. Se tutti gli anelli di questo mostruoso sistema sono da definire “mafia”, allora si tratta di “sistema” che si allarga all’infinito a cerchi concentrici, come l’acqua di uno stagno calmo su cui si getta un sasso. Se per contro escludiamo le vittime del sistema, coloro che ne pagano le conseguenze e ne sono stritolati, e ancora, la cosiddetta “società civile”, allora si potrà trovare qualche spazio di speranza per il mutamento. Aggiungerei che Trump, Putin, Erdogan, Sarraj, Aftar, al Sisi, Orban, e altri bei tomi, (non faccio i nomi dei milionari riccastri italiani, poiché dalle nostre parti c’è la denuncia facile e ne so qualcosa), hanno tutte le caratteristiche di autentici mafiosi, e che questo loro aspetto viene occultato perché sarebbero espressione e rappresentanza del potere “legale” dei rispettivi paesi. Come se esistesse la democrazia o come se la democrazia in primis e la politica su un quadro più vasto, non potessero anch’esse essere permeate da caratteristiche mafiose. 

D: come se non avessimo già abbastanza problemi, c’è poi qualche “pezzo” di Stato che rema contro. Penso a vicende come quella di Silvana Saguto, ex presidente della sez. misure di prevenzione, del Tribunale di Palermo, accusata di illegalità nella gestione dei beni sequestrati alla mafia. Un caso che, mi sembra, tu conosci molto bene.

R: La vicenda Saguto, il cui processo dovrebbe chiudersi a settembre, è la tipica espressione di come in Italia un posto di lavoro possa diventare posto di potere e come le leggi, messe in mano a chi dovrebbe applicarle, vengano essere manipolate e interpretate a uso e consumo personale o dei gruppi di potere politico ed economico ai quali il magistrato fa riferimento. La legge Rognoni-La Torre, sull’utilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi ha ulteriormente rafforzato la divaricazione di due giustizie, quella dei “condannati” per mafia e quella dei “sospettati”: a entrambi possono essere confiscati i beni, che prima vanno sequestrati e affidati agli amministratori giudiziari. Ma tra il sospetto e la prova penalmente riconosciuta c’è molta differenza, che l’adozione di misure di prevenzione non prende in considerazione.

D: Posso chiederti un parere sulla decisione del Presidente Musumeci di assegnare alla Lega l’assessorato alla Cultura e Identità Siciliana?

 R: Che dire? Non tanto per l’individuo, sul cui curriculum cameratesco si è già detto tanto, ma per il partito che esso rappresenta, che non ha nulla, dico nulla a che fare con la grande identità siciliana. Si può affidare, solo per problemi di spartizione politica, a un partito espressione del capitalismo del Nord, l’identità culturale dei Fenici, dei Greci, dei Romani, della Scuola Poetica Siciliana, degli Spagnoli, di Antonello da Messina, di Giovanni Meli, di Luigi Capuana, di Giovanni Verga, di Federico di Roberto, di Ettore Majorana, di Luigi Pirandello, di Salvatore Quasimodo, di Andrea Camilleri e potrei continuare all’infinito? La cosa più triste è che il regista dell’operazione e il suo esecutore sono siciliani.

D: a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, possiamo dire che il denaro è stato il vero vincitore della guerra fredda. L’1% dell’umanità possiede il 50% della ricchezza mondiale. Il sogno, per alcuni, del villaggio globale è diventato l’incubo del mercato globale, dove le merci hanno più diritti delle persone. Una tendenza che sembra impossibile sovvertire.

R.: La situazione si aggrava ogni giorno. Secondo un dato del 2019, un’élite di 2.153 paperoni detiene una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, mentre alla metà più povera della popolazione resta meno dell’1%. Credo che il rapporto tra le merci, i consumi e il numero degli abitanti, prima o poi produrrà sconvolgimenti sociali paurosi. Le crisi cicliche del capitalismo non sono visioni di Marx, ma costanti storiche legate ai cicli di produzione e di distribuzione delle ricchezze, oltre che del cibo. Per adesso arrivano dall’Africa, ma quando i morti di fame, non quelli di virus, si troveranno per le strade, inevitabilmente qualcosa dovrà succedere. O ci sbraneremo individualmente per avere qualcosa da mangiare o, se si troverà un’umanità che non ragiona solo con la pancia e un gruppo di leader con un progetto sociale convincente, salteranno i tappi delle bottiglie e non sono in grado di dire cosa succederà dopo, al di là del sogno sempre più lontano del comunismo.