Io e l’anoressia: guardandomi allo specchio sei anni dopo


Freddo all’anima. Freddo sulla pelle, fino alle ossa, pur di bruciare calorie. Il tuo sguardo che allo specchio, come in una di quelle stanze piene di vetri al Luna Park, deforma la tua immagine. La voglia di valorizzare il proprio corpo fino ad annullarlo. In quell’adolescenziale delirio di onnipotenza per il quale, se non puoi controllare il mondo, se non puoi farlo andare dove tu vorresti, almeno puoi farlo con te stessa. La forza di volontà, il sacrificio. E poi la soddisfazione. Accarezzare le ossa che, a poco a poco, vengono fuori dalla pelle, quasi a volerla strappare. Poter  risalire, con le dita, tutti i gradini della mia schiena. La soddisfazione di poter condurre te stessa ovunque tu voglia. Nel punto più alto del cielo. Oppure, nel più profondo degli abissi.

È lì, oltre l’atmosfera, che ti senti arrivare quando riesci a rinunciare al cibo, fino a convincerti di non averne più bisogno. Quando vedi il peso diminuire. È nel più nero dei vortici che ti senti di sprofondare quanto non è mai abbastanza. Mai abbastanza i chili che hai perso. Mai abbastanza le calorie che bruci.

Se qualcuno iniziasse a conoscermi adesso, probabilmente non penserebbe mai che io abbia passato tutto questo. Che l’anoressia abbia fatto parte di me. E forse nemmeno crederebbe che ne fa ancora parte. Che puoi riprendere peso, puoi salvarti da questa malattia che logora corpo e anima fino ad ucciderti, ma non puoi liberartene. Puoi essere anoressica anche a 66 chili. Perché loro, Ana  e Mia (così come vengono chiamate anoressia e bulimia, in una loro personificazione fino alla divinizzazione) sono in agguato, in un angolo, pronte a toglierti di nuovo tutto quello che, a forza, ti sei dovuta riconquistare per rimanere aggrappata alla vita. Sono pronte di nuovo a comprare la tua anima, a immolarti sui loro altari.

Ed  oggi combatto ancora con i loro fantasmi. Combatto ancora con il mio peso, che non riesco a mantenere costante, e con la paura che una dieta seria, quando aumento di qualche chilo, possa nuovamente farmi cadere nelle morse dell’anoressia e della bulimia.

Perché è così che tutto ha avuto inizio. Con una semplice dieta.

Avevo quindici anni e per la prima volta nella mia vita mi resi conto che avevo qualche curva di troppo. Volevo dimagrire. Non sapevo quanti chili desideravo perdere, né se ci sarei riuscita.  Trovandomi alle prime armi, decisi di condurre una ricerca approfondita sulla dieta.  Scoprì che per una ragazza della mia altezza occorreva, per perdere peso in maniera sostanziale, un importo calorico quotidiano di 1200 chilocalorie. Non avendo idea del valore calorico del cibo, stampai pagine intere di tabelle che riportavano il rapporto calorie-peso per tutti gli alimenti più comuni in ordine alfabetico. Allora non sapevo, né mi potevo immaginare, che quelle tabelle sarebbero diventate l’ossessione più perversa, tormentosa e traumatizzante della mia vita.

È così, con una semplice ricerca su internet, iniziai a contare tutte le calorie quotidianamente ingerite dal mio corpo.  Qualsiasi cosa che entrava nella mia bocca – un caffè, una caramella, una fetta di prosciutto – veniva riportato con il suo valore calorico nel mio inseparabile “quadernino della dieta”, dove sommavo l’importo calorico di tutto ciò che mangiavo.  Essendo di mio perfezionista e meticolosa, ci presi gusto a contare le calorie ingerite ogni giorno – lo vidi come un gioco. Se non trovavo il valore calorico di alcuni cibi nelle mie tabelle, allora indovinavo in base alle mie conoscenze degli altri alimenti simili e esageravo sempre un po’  per paura di sottovalutare l’importo calorico e quindi di oltrepassare il sacro numero: 1200.  Quando arrivavo alle prefissate 1200 kcal smettevo di mangiare fino al prossimo giorno.  Dovetti rinunciare a cenare più volte, avendo già utilizzato tutte le calorie a mia disposizione per quel giorno.  Inizialmente fu difficile sottrarmi da un pasto, ma dopo un mese divenne sempre più facile finché non iniziai a saltare la cena di mio proposito, nonostante non fossi ancora arrivata al mio saldo calorico di 1200 kcal quotidiane.

Mi ricordo quanto rimasi incredula quando mi accorsi di aver perso cinque chili durante le prime settimane del mio tentativo di dieta.  Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il calcolo calorico divenne sempre più naturale e scalare di peso divenne sempre più facile, soprattutto perché iniziai ad accoppiare alla dieta lo sforzo fisico.  Quando avevo tempo libero passeggiavo o correvo per una mezz’oretta, ma non feci mai nulla di troppo impegnativo.  Alla fine dei primi tre mesi di questa dieta ero arrivata, dagli iniziali 64 kg, a pesarne 56. Mi sentivo un’altra persona – più bella, più energetica, meno insicura.  Quando mi guardavo allo specchio mi piacevo di più.

All’inizio, raggiunto questo traguardo, ero felice e non avevo intenzione di dimagrire ulteriormente.  La fine dei primi tre mesi di dieta coincise con l’inizio del nuovo anno scolastico, e con lo stress dello studio e di tutte le novità alle quali dovevo abituarmi, poiché avevo appena cambiato liceo, non pensai più alla dieta.  Ma ormai contare calorie non era un semplice gioco – era diventato un comportamento compulsivo, automatico e dunque completamente scisso dal mio pensiero cosciente.  Ad ogni pezzetto di cibo che vedevo, anche se non destinato ad essere consumato da me, associavo entro pochi secondi un suo valore calorico; ogni morso, ogni briciola, contava.

Continuai in questo modo a perdere, nella media, un chilo a settimana, finché non raggiunsi il quinto mese.  A questo punto, per due settimane, non riuscì a perdere peso ed entrai in crisi.  Nel mezzo dello stress e del caos che caratterizzavano la mia vita, l’unica sicurezza che avevo era quella del mio rituale settimanale in cui, pesandomi, confermavo di aver perso esattamente un chilo.  Disperata, durante la terza settimana, decisi di ridurre l’importo calorico quotidiano da 1200 a 700 kcal e di aumentare notevolmente la mia attività fisica.  Ovunque dovevo andare, andavo a piedi: a scuola, all’ospedale, in centro, a casa degli amici. Sempre e solo a piedi. A qualsiasi ora e in qualsiasi condizione meteorologica.  Passeggiavo per ore fino quasi a svenire dalla stanchezza, ma sempre contenta, nella speranza che i miei sforzi venissero premiati dall’ago della bilancia.  E infatti lo furono! Alla fine della terza settimana ero dimagrita di un altro chilo e mi sentivo di nuovo una campionessa.  Da lì in poi non ebbi più problemi a perdere il mio chilo settimanale: sia l’attività fisica esorbitante, sia il limitarmi a 700 kcal al giorno divennero una semplice routine.

Non mi ricordo esattamente quanti mesi passarono dall’inizio della mia dieta, ma ad un certo punto mi resi conto che 700 kcal erano diventate eccessive per il mio corpo.  Ormai le dimensioni del mio stomaco erano ridotte e con 400 o 500 kcal ero più che soddisfatta. Arrivata a 40 Kg ebbi di nuovo fatica a perdere peso e quindi decisi di ridurre la mia dieta ad un solo pompelmo al giorno e quantità illimitate di caffè per tenermi sveglia e concentrata sullo studio.

A pensarci ora sembra impossibile che io sia andata avanti così per mesi, eppure all’epoca era la mia soddisfazione più grande! Vedere l’ago della bilancia muoversi ogni settimana indietro mi regalava una felicità esuberante.  Passavo ore davanti allo specchio ad ammirare il mio corpo, le mie ossa spigolose che ormai si vedevano benissimo, il mio viso scavato, il mio fondo schiena inesistente.  Non avevo neanche una curva. Ero riuscita a eliminarle tutte e ciò mi rendeva la ragazza più appagata del mondo.

Ma tutti questi apprezzamenti verso il mio corpo erano privati, segreti, intimi. Perché da anoressiche si ottiene un’intimità estremamente profonda con il proprio corpo, diventa sacro.  Nessuno lo può vedere, toccare o sfiorare. Possiamo farlo solo noi! Infatti, nonostante amassi il mio corpo più di ogni altra cosa al mondo, più perdevo peso e più mi vestivo con abiti larghi o non aderenti. Gli altri pensavano che mi vergognassi del mio corpo, ma io, al contrario, lo adoravo, lo contemplavo per ore, e non volevo condividere la bellezza che vedevo in lui, con nessun altro. Ero certa che nessuno poteva capire le scosse di adrenalina e la felicità immensa che provavo nel vedere tutte le vertebre della mia colonna vertebrale. Sapevo che nessuno poteva apprezzare il mio corpo quanto me, nessuno lo poteva comprendere nella sua magra bellezza.

Infatti, mi ricordo che la mia professoressa di Italiano e Latino, che si era dimostrata preoccupata del mio peso, decise un giorno di farci vedere un film sull’anoressia piuttosto che farci lezione.  Avevo molte cose in comune con la protagonista del film e infatti mi piacque molto vederlo, ma una scena in particolare mi rimase impressa per via della reazione dei miei compagni.  In questa scena la protagonista è nuda, davanti allo specchio, che ammira il suo corpo come facevo sempre io.  Ad un certo punto si gira e, riflessa nello specchio, si vede la sua schiena: tutte le vertebre sono visibili.  E se il mio primo pensiero fu “è bellissima, proprio come me”, quello dei miei compagni fu, ovviamente, di diversa natura.  Si girarono tutti per non guardare, quasi se fosse un’immagine disgustosa, orrida.

Quell’esperienza non fece altro che intensificare la mia convinzione che nessuna persona comune sarebbe stata in grado di apprezzare la bellezza superiore del mio corpo.  Ecco dunque perché mi vestivo con abiti larghi.

Nonostante provavo a coprirmi, la magrezza s’intravedeva perché già a 45 kg non potevo più sedermi su una sedia senza prima appoggiare un cuscino o una sciarpa. Spesso sentivo dirmi dalla gente che facevo schifo per quanto ero magra, ma io ero convinta che fossero tutti gelosi di me perché mi sentivo molto superiore agli esseri non anoressici.  Infatti, ogni volta che mi si rivolgeva un commento negativo io pensavo “noi anoressiche non abbiamo bisogno del cibo per sopravvivere perché abbiamo una forza di volontà molto maggiore di quella degli esseri mortali comuni. Siamo più disciplinate, più motivate, più forti!  È ovvio che sono tutti invidiosi del nostro potere superiore!”  Mi sentivo invincibile! Era una sicurezza di me che non avevo mai provato, una confidenza nelle mie capacità e nella mia “superiorità” che mi regalava ogni giorno deflagrazioni di euforia, ed è per questo che sopportavo tutti i sacrifici che facevo per perdere sempre più peso!

Ricordo che facevo 500 addominali al giorno, 100 alla volta, fino a svenire.  Inoltre avevo letto in un articolo scientifico che riducendo le ore di sonno, il corpo aumenta naturalmente il suo metabolismo.  Iniziai quindi a deprivarmi di sonno, dormendo 4 o 5 ore a notte piuttosto che le solite 8.  Mi ricordo anche che man mano che mi avvicinavo ai 40 kg, soffrivo sempre più di vertigini sia quando camminavo che, soprattutto, quando scendevo le scale.  Avevo la perpetua paura di cadere o svenire e di ferire notevolmente le mie bellissime ossa.  Ma per mia fortuna svenni solo una volta, che bastò che confermare che la mia paura era legittima.  Tale timore di cadere accoppiato al fatto che mi girava spesso la testa, mi limitò nelle mie attività fisiche e quindi iniziai a praticare un’altra abitudine che, col senno del poi sembra alquanto strana, ma che all’epoca mi sembrava geniale.

Il freddo che più tardi che ho sentito nell’anima, quando ho capito che l’avevo svenduta per l’anoressia, ho iniziato a sentirlo sulla pelle. E non solo vestendomi più leggera di quello che la stagione poteva imporre, ma mettevo in atto un vero e proprio rituale prima di andare a dormire. Poggiavo cubetti di ghiaccio su tutto il mio corpo per un’ora, fino a quanto non arrivavano a battermi i denti. E questo per il perverso pensiero che quando sentiamo freddo, il corpo deve bruciare energia, e quindi calorie, per riscaldarsi.

Un’altra abitudine, intrapresa durante la mia malattia fu quella di provare piacere nel far mangiare eccessivamente gli altri.  Mi offrivo sempre per servire i miei familiari a tavola e facevo porzioni enormi per tutti, offendendomi se loro non finivano l’assurda quantità prevista da me.  Era come se provassi piacere nel vedere gli altri godere di tutto ciò che io mi ero negata.

Arrivata a 37 kg, il mio corpo non mi reggeva quasi più in piedi.  Il mio battito cardiaco era rallentato notevolmente e tutte le visite dal cardiologo confermavano che la fatica che avvertivo nello stare in piedi non era una semplice sensazione. Il mio corpo si stava ribellando! Il mio cuore era lento, le mie gambe pesanti, la mia testa girava e non riuscivo piu’ a perdere un altro chilo nonostante tutti i miei sforzi.  Nel mio tentativo più disperato di perdere questo chilo, rimasi a letto per tre giorni senza mangiare.  Bevevo acqua ogni tanto, ma ero troppo depressa per mangiare: volevo solo perdere un altro chilo e sentire la solita euforia di sempre.  I dottori e mia madre mi ricordavano ad ogni occasione che gli si presentava, che se non decidevo di mangiare ero sicuramente destinata a morire.  Dopo due settimane di profonda delusione e depressione per via della mia incapacità di passare a 36 kg, decisi di concedere a me stessa di mangiare normalmente e con questa decisione iniziò l’anno più brutto della mia vita!

È stata dura riprendere a mangiare, immaginare le mie bellissime, spigolose ossa a poco a poco riassorbite, quasi risucchiate, dalle curve che tanto odiavo e che, sicuramente, avrei recuperato. Mangiare e stare male perché ormai non solo la mia mente, ma anche il mio corpo rifiutava quel cibo senza il quale lo avevo costretto a stare fino a considerarlo come opzionale per la mia esistenza. Mangiare, per sopravvivere, e poi vomitare tutto perché nulla potesse modificare il mio corpo.

Mangiare, mangiare, mangiare.

Si, perché poi è arrivata la bulimia, il mio peso che addirittura arriva a superare quello da cui ero partita, quando tutto era cominciato.

Quando era cominciato? Come? Nemmeno lo ricordavo più.

Adesso lo ricordo. Lo ricordo bene. E voglio ricordalo a chi si soffermerà su queste righe. Che sia spinto dalla curiosità, che sia una madre che cerca di capirci di più, che sia un’adolescente, che legge e vede, nelle mie parole, il suo riflesso. Voglio ricordare che una volta che si decide, in maniera più o meno inconsapevole, di lasciare che Ana e Mia entrino nelle propria vita, in qualunque modo, sarà per sempre.