Io so Pazz (Pino Daniele)

 

E’ difficile definire un pazzo o un matto.

Per assurdo dovremmo dire di essere pazzi e matti per poter dire cosa pensa un pazzo o un matto. La stessa considerazione l’ha dovuta fare anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la quale si limita a parlare di salute mentale.

La distinzione contrariamente a quanto si pensa non è peregrina. Essa è il frutto e il retaggio di una cultura oscura, buia e nera, che sin dall’antichità ha visto nel portatore di handicap mentale il male assoluto, qualcosa di alieno, strano ed estraneo all’umanità, da estirpare, nascondere, uccidere ed eliminare dalla vista e dalla Società.

Se anche dopo questa precisazione continuassi a chiedervi chi è, o cosa è,  un pazzo non sapreste rispondere, come non lo sa fare l’OMS la quale preferisce eclissare sul portatore di handicap mentale, in altri termini focalizzare l’attenzione sull’uomo e affidarsi invece a un concetto. Il concetto di salute mentale da rapportarsi ad una condizione di normalità e/o equilibrio affettivo, emotivo, neurobiologico, del tono dell’umore, cognitivo e comportamentale, che già nel contenuto  denota una difficile definizione che possa a sua volta essere univoca e condivisa: per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, non esiste una definizione “ufficiale” del concetto di salute mentale.

Tale difficoltà concettuale ha radici lontane nel tempo ed infatti, nonostante l’uso comune che tende a confonderli, follia, pazzia e malattia mentale non sono dei sinonimi. Follia viene dal latino ‘folle’ che significa mantice, otre, recipiente vuoto e rimanda all’idea di una testa piena d’aria. La parola ‘pazzia’ ha un’origine incerta, ma probabilmente deriva dal greco ‘pathos’, che significa sofferenza e dal latino ‘patiens’ (paziente, malato), concentrando dunque il significato sull’esperienza dolorosa anziché sulle bizzarrie e le stravaganze del folle. Il termine ‘follia’ è oggi assolutamente in disuso nel linguaggio scientifico, che preferisce usare i termini ‘malattia mentale’, alludendo a qualcosa di disfunzionale, rappresentabile secondo un particolare modello scientifico, che è quello della medicina clinica.

Nell’ antichità, la follia possedeva una forte connotazione mistica, essendo ritenuta derivante dall’influsso di qualche divinità (l’epilessia, ad esempio, per questo motivo, veniva chiamata morbo sacro). Il trattamento della follia era dunque di tipo mistico-religioso, praticato dai sacerdoti del tempio, che tentavano di alleviare i sintomi con riti e preghiere. I sacerdoti tentavano anche di interpretare i sintomi del folle come se fossero dei messaggi provenienti da entità sovrannaturali. A volte la follia poteva essere considerata anche una punizione, una maledizione divina: in questo caso la persona giudicata folle veniva emarginata dalla collettività.

Nel Medio Evo la follia venne considerata come una forma di possessione da parte di spiriti maligni: fu così che la gestione della malattia mentale, soprattutto femminile, passò dai medici alla Chiesa, o meglio, ai suoi esorcisti e inquisitori. Ai folli veniva vietato l’ingresso nelle chiese e le persone indemoniate, specialmente le donne, venivano bruciate sul rogo, come streghe ( per la cronaca, l’ultimo rogo per stregoneria è stato effettuato in Polonia, nel 1793). I malati mentali venivano considerati indemoniati, perché la forza malvagia, insinuandosi negli umori, contagiava il corpo: l’uccisione con il rogo o l’impalamento permettevano di distruggere il corpo dell’indemoniato, così che l’anima, finalmente liberata, potesse salire fino a Dio.

Tra il XVI ed il XVII secolo, il malato mentale, anche grave, viveva nel contesto sociale, ma era considerato una persona pericolosa e pertanto si cercò sempre di più di stigmatizzare il fenomeno e di contenerlo. La pazzia venne inclusa fra i vizi capitali (Fede/Idolaiatria, Speranza/Disperazione, Carità/Avarizia, Castità/Lussuria, Prudenza/Follia, Pazienza/Collera, Dolcezza/Durezza, Concordia/Discordia, Obbedienza/Ribellione, Perseveranza/Incostanza).

I malati che, come si può intuire, si comportavano in modo bizzarro, strano e spesso con modalità aggressive (si pensi al comportamento antisociale del maniaco e dei sofferenti di disturbi di personalità), venivano aggrediti o derisi, oppure rinchiusi in carcere. La maggior parte delle persone detenute in prigione era in realtà affetta da gravi malattie mentali In questi luoghi di contenzione, oltre ai malati psichici si potevano trovare mendicanti, vagabondi, eretici, disoccupati, libertini, donne di facili costumi, ladri, criminali, alcolisti, ecc. Di fatto, in questi ‘ospizi’ non veniva offerta alcuna cura, alcuna assistenza: i detenuti erano anzi picchiati o frustati molto spesso.

Fu solo nel XVII secolo che i malati psichici, per la prima volta dopo il Medio Evo, furono riconosciuti come tali e la psichiatria fu considerata una scienza medica, completamente libera dai ganci della religione. Tuttavia, la malattia mentale era ancora considerata inguaribile, progressiva e, soprattutto, incomprensibile.

Il medico francese Philippe Pinel (1745-1826), direttore di uno di questi ospizi, cominciò a distinguere i malati mentali dai poveri, i vagabondi e gli emarginati, cui prima venivano assimilati. Philippe Pinel riconobbe la follia come una malattia del corpo e definì cinque malattie mentali: la malinconia, la mania senza delirio, la mania con delirio, la demenza e l’idiotismo. Per Pinel il folle era un individuo incapace di padroneggiare i propri istinti: Gli strumenti terapeutici utilizzati per ricondurre questi malati alla ‘normalità’ furono particolarmente traumatici, volti a provocare uno shock: in queste strutture erano comuni docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica, purghe, salassi, oppio, ecc.

All’inizio del Novecento comparvero sulla scena la psicologia e la psicoanalisi, tuttavia continuava ad essere dominante la considerazione del solo aspetto organico della malattia mentale. Dato che il paziente veniva considerato irrecuperabile, in quanto condannato da un danno cerebrale, gli si precludeva qualsiasi possibilità di riabilitazione. Vennero introdotti nuovi trattamenti, come la lobotomia frontale, lo shock cardiazolico e l’elettroshock. Contemporaneamente, iniziavano a diffondersi le teorie psicoanalitiche ed i relativi approcci psicoterapeutici. Si deve a Sigmund Freud (1856-1939) il tentativ o di affrontare in altro modo il disturbo mentale, prestando attenzione al funzionamento della psiche del paziente. Freud si rese conto che le differenze fra normalità e follia riguardavano più l’intensità e la quantità dei sintomi, che la qualità.

Nel 1952 furono sintetizzati i primi psicofarmaci, i neurolettici, che pur agendo solo sui sintomi della schizofrenia, aprirono nuovi orizzonti per un nuovo approccio alla cura.

Intanto si faceva strada la convinzione che la malattia mentale poteva dipendere anche da fattori sociali. La diffusione delle idee psicoanalitiche prima ed  il contributo di nuove discipline poi, come la filosofia fenomenologica, la sociologia, la psicologia sociale, contribuirono notevolmente ad un costante, ma progressivo affrancamento della nuova scienza psichiatrica dalla neurologia e dunque dall’ambito prettamente organicistico. Già Cesare Lombroso osservava che non bisognava punire soltanto, ma valutare il contesto sociale, biologico, personale e neuropsichiatrico in riferimento all’atto delittuoso. Il giudizio circa il delitto doveva nascere da un esame globale dello stato intellettivo, psicopatologico, sociale e neurologico in gioco nel soggetto: non punire quindi, ma “rieducare”. L’istituzionalizzazione rendeva, di fatto, priva di speranze la carriera del malato di mente: al disturbo originario si aggiungeva la malattia istituzionale, che derivava dalla lunga degenza e dalle condizioni di vita all’interno del manicomio. L’istituzione, che avrebbe dovuto curare, finiva in realtà per peggiorare ulteriormente la situazione del malato, privandolo totalmente delle proprie iniziative, della sua libertà e individualità, portandolo ad un completo decadimento delle abilità sociali.

Le ‘cure’ somministrate nei manicomi del tempo (dosi elevate di psicofarmaci, medicinali di nuova invenzione ed ancora in fase di sperimentazione, elettroshock, misure costrittive) vennero considerate forme di violenza sociale su persone fragili. I manicomi, considerati centri di potere molto rilevanti nell’equilibrio della comunità locale, oltre che campi di manovre clientelari e serbatoi di voti (grazie al clientelismo delle assunzioni di un numero spropositato di addetti) dovevano essere aboliti. In Italia lo psichiatra Franco Basaglia (1924-1980), riteneva che una società più libera e giusta, avrebbe fatto diminuire anche la malattia mentale. Con la legge n. 180 del 1978, nota come Legge Basaglia, furono aboliti in Italia gli ospedali psichiatrici ed istituiti i servizi di igiene mentale, per la cura ambulatoriale dei malati di mente. Questo fece dell’Italia un paese pioniere nel riconoscere i diritti del malato.

”… la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impossibile che un matrimonio potesse essere distrutto, Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale”.

Dopo questo piccolo sunto storico della follia potreste pensare che dopo la legge Basaglia le cose sono cambiante e che il portatore di handicap mentale sia finalmente considerato un uomo e non un alieno. Sbagliate.

Un breve viaggio nella c.d. antipsichiatria ci consentirà di denudare i retroscena e l’inganno concettuale che ancor oggi ci attanaglia di fronte a un folle e alla considerazione di fondo che non c’è lo fa vedere come uomo   il termine “antipsichiatria” (usato per la prima volta da David Cooper nel 1967) definiva un movimento che contrastava le teorie e pratiche fondamentali della psichiatria dominante per essa l’espressione “malattia mentale” è una combinazione internamente incoerente di un concetto medico e uno psicologico, ma popolare perché legittima l’uso della forza psichiatrica per controllare e limitare la devianza dalle norme sociali.

Si pensi per esempio all’omosessualità vista fin a poco tempo fa come una vera e propria malattia mentale ed è solo nel 1970 che si rividero molte posizioni. Infatti durante gli anni settanta, il movimento antipsichiatrico promosse l’eliminazione di molte pratiche che vedeva come abusi psichiatrici. Il movimento dei diritti degli omosessuali si oppose alla classificazione dell’omosessualità come malattia mentale, e in un clima di acceso dibattito nel 1973/1974 l’American Psychiatric Association decise con una piccola maggioranza (58%) di rimuoverla dalle categorie nosografiche; ciononostante l’omosessualità egodistonica rimase fino al 1987. L’aumento di protezioni legali e professionali, e l’alleanza con movimenti per i diritti umani e per i diritti dei disabili, rafforzarono la teoria e la pratica antipsichiatrica.

L’antipsichiatria, che si opponeva alla concezione ‘biomedica’ della psichiatria (genetica, neurochimica e farmacologica), con sempre maggior enfasi criticò il crescente legame tra la psichiatria e l’industria farmaceutica, che stava diventando più potente: sempre più energicamente quest’ultima veniva accusata di avere un’influenza eccessiva, ingiustificata e illegale sulla ricerca e sulla pratica psichiatrica. Cresceva anche l’opposizione del movimento antipsichiatrico alla codificazione e all’abuso di diagnosi psichiatriche nei manuali, in particolare ad opera della American Psychiatric Association, che pubblica il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. L’antipsichiatria ha sempre più criticato il pessimismo psichiatrico a proposito di quanti erano classificati come malati mentali. Gli utenti della salute mentale reclamavano la piena guarigione e la capacità di autogestirsi. Il nuovo approccio intendeva sfidare lo stigma e la discriminazione, incoraggiare la gente con problemi di salute mentale ad impegnarsi più pienamente nel lavoro e nella società e coinvolgere nella valutazione di servizi sanitari mentali gli stessi utenti di quei servizi. Tuttavia, quanti attivamente e apertamente criticavano i fondamenti etici e l’efficacia della pratica psichiatrica tradizionale, sono rimasti marginalizzati all’interno della psichiatria e dell’intera comunità dei professionisti della salute mentale.

Se queste sono le premesse storiche e sociali che caratterizzano il concetto di salute mentale le cose non sono cambiate neanche ai nostri giorni. Basta riflettere sulla circostanza che anche da un punto di vista medico non esiste un Malato-uomo di mente ma un Malato-statisco di mente. Ed invero oggi la definizione di malato di mente o meglio perché un soggetto sia considerato un folle, perché possa parlarsi di malattia mentale applicata ad un uomo si deve aprioristicamente parlare di asse cartesiano e solo se si rientra in questo asse cartesiano ci si può avvolgere del mantello della pazzia.

Questo asse cartesiano si chiama il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders («Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali»), noto anche con l’acronimo DSM, è uno degli strumenti diagnostici per disturbi mentali più utilizzati da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo. Il DSM è uno strumento di diagnosi descrittiva dei disturbi mentali. Il suo approccio è quello di applicare la relativa stabilità dell’analisi descrittiva dei sintomi di patologie mediche all’universo dei disturbi mentali. La sua struttura segue un sistema multiassiale: divide i disturbi in cinque Assi, così ripartiti: ASSE I: disturbi clinici, caratterizzati dalla proprietà di essere temporanei o comunque non “strutturali” e altre alterazioni che possono essere oggetto di attenzione clinica: lo psichiatra cerca la presenza di disturbi clinici che possono essere riconducibili non solo al cervello e al sistema nervoso, ma anche a qualsiasi condizione clinica significativa che il soggetto può avere (per esempio valuterà se il soggetto è sieropositivo, malato cronico, etc.) ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale. Disturbi stabili, strutturali e difficilmente restituibili ad una condizione “pre-morbosa”; generalmente, ma non necessariamente, si accompagnano a un disturbo di Asse I, cui fanno da contesto. Questo asse è divisa in sottoparagrafi corrispondenti ai diversi disturbi di personalità. ASSE III: condizioni mediche acute e disordini fisici ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine ASSE V: valutazioni globali del funzionamento.

E’ chiaro che in questo modo si perde l’umanità della malattia, non esiste più “Peppino o pazzo” o “Giovanni o scemo” ma solo un numero statistico. Non mi si fraintenda ma al di là dell’appellativo, più o meno dispregiativo, Peppino e Giovanni sono delle persone con i loro affetti e i loro sentimenti, l’Asse è una statistica, è un numero, una circostanza affidata alla diagnosi di un dottore che se si è alzato con il mal di pancia ti fa diventare uno schizofrenico o un depresso a secondo se ha o meno digerito i peperoni.

Ma le complicazioni sociali di questo metodo diagnostico della malattia mentale sono ancor più gravi, si pensi ai regimi totalitari o antidemocratici dove diagnosi di malattia mentale sono state e lo posso essere ancor oggi usate dal potere per calmierare la società.

Il manuale , il DSM ,infatti si limita a prevedere circa 370 sintomi o indicatori di mancanza di salute mentale  ed è in base all’incrociarsi cartesiano di questi sintomi si hanno le varie follie. E’ ovvio che su 370 sintomi anche voi potreste essere considerati come carenti di salute mentale essendo il quadro diagnostico del tipo che segue:

-nosografico: i quadri sintomatologici sono descritti a prescindere dal vissuto del singolo, e sono valutati in base a casistiche frequenziali.

– ateorico: non si basa su nessun tipo di approccio teorico, né comportamentista, né cognitivista, né psicoanalitico, né gestaltico, etc.

– assiale: raggruppa i disturbi su 5 assi, al fine di semplificare e indicare una diagnosi standardizzata.

– su basi statistiche: si rivolge ad esse in quanto il sintomo acquista valore come dato frequenziale; i concetti statistici di media, frequenza, moda, mediana, varianza, correlazione, ecc. giungono ad essere essi stessi il “solco” mediante il quale si valuta la presenza o meno di un disturbo mentale.

 

Non rimane che ritornare alla domanda iniziale, ma chi è, o cosa è,  un pazzo ?