Io prima di te

Non è semplice affrontare il tema del rapporto tra due personalità contrastanti, ancor più difficile se una di esse è bloccata in una immobilità fisica che non ha scelto. Ci prova la regista Thea Sharrock, con il film Io prima di te, forte della fama che l’omonimo romanzo di Jojo Moyes ha raggiunto in molti Paesi.

La pellicola si avvale della presenza di Sam Claflin (indimenticabile in Biancaneve e il cacciatore e in Hunger Games: La ragazza di fuoco) e soprattutto di Emilia Clarke (nota per la sua interpretazione della Khaleesi Daenerys Targaryen nella serie televisiva Il trono di spade). Entrambi sono supportati da Charles Dance (Tywin Lannister), Jenna Coleman (Clara Oswald in Doctor Who), Matthew Lewis (Neville Paciock nella saga di Harry Potter) e Janet McTeer.

Siamo di fronte a una prevedibile, per quanto struggente, storia d’amore che mette la lacrima a favore di camera e prova a distogliere l’attenzione dello spettatore da qualche difetto che colpisce il film, al netto della bellissima fotografia di Remi Adefarasin. Io prima di te percorre vie già largamente battute e si colloca a metà fra una favola alla Pretty Woman, in cui una ragazza di umili origini viene inserita in un ambiente alto-borghese, e una commedia sui risvolti sociali e sulle limitazioni fisiche alla Quasi Amici.

Louisa Clark (Emilia Clarke) ha 26 anni. Ha un umore contagioso come la varicella e indossa giornalmente un outfit che definire stravagante sarebbe troppo riduttivo. Gestisce alla meno peggio l’ebetudine di un fidanzato eccitante come un lampione della luce a lampadina fulminata. Viene licenziata dal posto in cui per anni ha servito tè e biscotti e si dispera. Ha anche una famiglia, composta da padre, madre, sorella e nipote. Questi familiari d’appendice la tengono in “ostaggio lavorativo” perché stentano ad arrivare a fine mese, tanto da dirle a chiare lettere che il suo stipendio è essenziale e che quindi dovrà trovarsi presto un altro lavoro. Dopo numerosi tentativi, la giovane inglese entra in una ricca famiglia come assistente a un uomo disabile.

William Traynor (Sam Claflin), il trentenne per il quale la sua famiglia cerca compagnia, è diventato quadriplegico dopo essere stato investito da una moto. Ricoperto di barba, fighezza e scontrosità, vorrebbe crogiolarsi nel suo dolore e la presenza ingombrante di Lou lo innervosisce, perché lo riporta alla realtà e rischia di metterlo nelle condizioni di ripensare al suo futuro, ai suoi desideri e alle sue ormai inossidabili certezze. Guarda film con i sottotitoli, gestisce malamente il ricordo di una fidanzata e di un corpo che non può più muovere e una tantum finisce in fin di vita all’ospedale.

Nonostante le problematicità iniziali, fra i due giovani nasce un rapporto intenso e profondo che li porta a rivalutare le loro vite. Superando stucchevoli romanticismi e imbarazzanti scene, scortati dalla colonna sonora di Craig Armstrong e da alcuni brani indie rock, si arriva al finale che, seppur in modo affrettato, pone lo spettatore di fronte a una importante riflessione: è giusto scegliere di morire quando si è incastrati in “gabbie fisiche” che ci impediscono di vivere pienamente? Questa riflessione, lasciata spesso alla periferia della storia tra i due, dà luogo a scene emotivamente forti. Talmente d’impatto che sul volto degli spettatori si presentano così tante copiose lacrime, che – a confronto – togliersi i denti a mani nude e senza anestesia è un solletico.

Eh, sì, perché pur avendo la dolcezza e l’acutezza di Notting Hill et similia, la trasposizione del romanzo di Jojo Moyes si addentra nel tortuoso vialetto (il termine è giusto, considerata la residuale importanza che viene data all’argomento) dell’impedimento fisico e dell’eutanasia, reclamando il diritto di scegliere se continuare o meno a vivere nella paralisi che il destino ha riservato.

Il tema è molto importante, se pensiamo che il film è destinato a un pubblico giovane (quello del Giffoni). E forse anche per tale ragione la regista ha deciso di anteporre la caratterizzazione dei personaggi al plot narrativo della reale storia. Così, la manipolazione emotiva è servita su un piatto d’argento e lo zio Pavlov ringrazia per avergli risparmiato la fatica di stimolare, con punizioni e rinforzi, le lacrime (al posto della ormai superata salivazione).

La sceneggiatrice, che è pure l’autrice del romanzo, lavora di cesello sul testo. Ci prova nel modo migliore possibile, bisogna dargliene merito. Anche se i risultati sono al quanto goffi e prevedibili. Lou sembra alternarsi tra il ruolo di una Bridget Jones, quando maldestramente affronta la vita con sorrisi durbans, e quello di Pollyanna, quando si commuove e ringrazia il cielo per le sue calze da Ape Maia. Di contro, il film gioca le sue carte grazie al tenebroso e affascinante Will che, in qualche modo, si lascia travolgere dalla valanga di positività e voglia di vivere della sua nuova assistente.

Non finisce qui. Ci sono almeno altri due stereotipi.
Il primo: Will è bello, ricco, vive quasi fuori dal mondo tra le mura di un castello e raccoglie – come fosse un campo minato – tutti quegli ingredienti che fanno di lui il principe azzurro idealtipico. Il secondo: la goffaggine e l’abbigliamento di Lou, anche se servono ad alleggerire la situazione, riescono a suscitare contemporaneamente sentimenti di grande ilarità e tenerezza e punte di autentico sbigottimento. I due personaggi restano, così, stretti nelle trame di facili stereotipi costruiti ad arte sul personaggio dell’estroversa ragazza dozzinale (che poi tanto dozzinale non è) e dell’inflessibile borghese (che poi, anche lui, tanto altolocato non è…). Allo spettatore non resta altro che rimanere di fronte al solito fastidioso schema dove bisogna capire chi salva chi… Perché, ebbene sì, in una rom-com qualcuno salva e qualcun altro è salvato.

Eppure, nonostante alcuni cliché che potrebbero far vincere l’oscar (dei cliché, appunto) a Io prima di te, la pellicola pacifica tutti e ci inonda d’affetto e di lacrime. Oltre al fatto che ci invita a riflettere sulla nostra vita, ma soprattutto sulla necessità di riempirla di qualità, anziché di quantità. A margine, ma non meno importante, diviene essenziale capire qual è il potere che abbiamo sulla nostra vita e se possiamo permettere ad altri di avocare scelte che invece sono soltanto nostre.

Quindi il film è da bocciare? No, certo che no. Indubbiamente, Emilia Clarke è brava e riesce a restare in piedi: non implode sotto i colpi dell’incessante overacting stabilito dalla regista, fatto di esagerate smorfie e spropositati sorrisi. Anche se appare più a suo agio Sam Claflin che, pur quadriplegico, riesce a comunicare tutta una serie di storie con il volto, le espressioni e la bocca.

Peccato che il tema principale, che dovrebbe essere l’eutanasia, viene ombrato da quello che emerge di più: l’amore sbocciato tra una ragazza svampita (solo apparentemente) e un ricco disabile che diviene cinico e anaffettivo e si può permettere di programmare la sua morte in Svizzera (nella clinica che è più innominabile dell’Innominato). La sedazione data dall’amore non aiuta il film a decollare, ma comunque piace.

Ce la farà Lou a far cambiare idea a Will? Oppure Will riuscirà a far capire il suo punto di vista a Lou, morendo e strappandoci altre lacrime? Dicono che lo spoiler non sia concesso.