Il prof. Pippo Labisi, dialettologo, storico e uomo di cultura, originario di Novara di Sicilia, è morto martedì scorso a Barcellona Pozzo di Gotto. Il Longano è la città che non solo gli ha dato la residenza, ma anche una serie di fortune e incontri. I funerali si sono svolti ieri pomeriggio nella sua amata Novara, tra un sincero dispiacere da una parte e la solita ipocrisia dall’altra.
È morto, dicevamo. E la morte, si sa, non è più quel sempre mai di cui si velano le assenze sulla terra o la cristallizzazione di noi in una fotografia. Oggi è un grande lavoro di uncinetto, il cui prodotto è il trucco e il parrucco di chi conosce, o vuol far credere di conoscere, il morto di turno. E quindi, nel nostro caso, non possiamo che essere tutti Pippo Labisi. Addolorati, manco a dirlo, per la sua dipartita.
E sì, perché il prof. Pippo Labisi, pressoché lasciato solo negli ultimi anni della sua intensa vita (ma diciamolo piano), sul ciglio del trapasso si è trovato amicizie inaspettate, quasi sconosciute. E sì, perché “era un grande uomo ed eravamo amici” è un vizietto antico che sovente va spolverato. Un po’ come è successo con la compianta Antonella Cocchiara che, sia chiaro, non è mai stata lasciata sola come Pippo Labisi, ma sicuramente è stata snobbata da un certo associazionismo borghese che pensava, come un piccolo baccelliere a ore, di avere lo scettro su certi temi e lo diceva quando era viva. Mentre, con tanto di cerone, lacrimava come un sepolcro imbiancato al funerale quando era morta.
Parlavamo di Pippo Labisi, in verità. E delle sue amicizie.
Dicevamo che “gli amici di una vita” – l’avete mai conosciuta la sua vita? – hanno squittito durante il suo funerale a Novara. Mai vista tanta stima, vicinanza, ipocrisia smagliante. Teatrini in cui il primo pronome personale singolare, io, aveva la meglio.
Pippo Labisi non improvvisava cultura. E neppure amicizia. Neanche con associazioni barcellonesi che impalano teatri e teatrini per i propri convivi personali. Due giorni di lotteria, a Barcellona Pozzo di Gotto, di uomini e donne di cultura, o presunta tale, che hanno cicaleggiato, nella loro fitta nebbia,“io lo conoscevo, lo stimavo, gli sono stato accanto negli ultimi giorni di vita”. Ed è meglio dirlo da morto, ché da vivo può rammentarti il contrario.
Je suis Pippo Labisi, dunque, perché da morti siamo tutti fantastiche persone e tutti improvvisamente ci conoscono.
Je suis Pippo Labisi per tutte le volte che nella via Umberto I, dove abitava, a vederlo da lontano con la signora che lo aiutava ci si spostava di marciapiede.
Je suis Pippo Labisi perché era troppo intellettuale e apparteneva a una cultura ormai superata (secondo quale parametro non è dato sapere, ma così è).
Je suis Pippo Labisi perché non ho mai capito di dialetto gallo-italico e non so manco da dove viene, ma so per sentito dire che lui si era occupato di questa specie di cosa che non serve più nell’era dei quanta e dei nessuno.
Je suis Pippo Labisi perché il presente trionfale dei selfie – immaginatevi il futuro! – ci ha seppellito e avere nella propria biblioteca i suoi libri può voler dire due cose: o che te la tiri perché hai letto quattro paginette in più rispetto ad altri, oppure puzzi di muffa come le cose antiche.
Je suis, stavolta davvero, Pippo Labisi, in un orizzonte di intellettualoidi in cui, in realtà, il ricordo del professore resterà sempreterno. Come, del resto, la vostra vuota gloria.
Carmen Fasolo