“Non era un eroe, non era un sant’uomo: era un politico con un passato, ed è proprio questo a renderlo interessante, misterioso, inafferrabile.” Giuseppe Insalaco, democristiano dagli oscuri trascorsi, è senza dubbio una figura non convenzionale nel panorama dell’antimafia siciliana. Sindaco di Palermo per pochi mesi in un torbido e caotico 1984, Insalaco viene oggi annoverato fra le vittime di mafia. A porre fine alla sua vita è bastato qualche colpo di pistola: l’uomo si è spento il 12 Gennaio del 1988, dopo anni passati ad urlare verità sconvenienti. In pochi erano disposti ad ascoltare le sue parole, confuse, accusatorie, a volte insensate. Calunniato e calunniatore, è morto nell’indifferenza stizzita di una Sicilia troppo scettica per compiangerlo. Sulla sua scomparsa è calata una coltre di silenzio, un fitto manto di indolenza.
Vent’anni dopo, il regista palermitano Sergio Ruffino porta alla luce la storia del “Sindaco dei Cento Giorni”: Insalaco andrebbe ricordato e conosciuto, la sua vita riletta alla luce di una nuova consapevolezza. D’altronde, chi è davvero Giuseppe Insalaco? Probabilmente in pochi, pochissimi sono oggi in grado di rispondere a questa domanda. I più non ne conoscono nemmeno i connotati.
Ruffino è qui per
raccontare ciò che sa di lui, della sua politica, della sua “irresistibile ascesa”. Dopo, l’inarrestabile declino, il delirio, la morte. Insalaco è un democristiano, un ribelle, un connivente, una voce isolata. E forse, molto di più.
Scrittore, regista, film-maker: sei un personaggio abbastanza eclettico. Questa volta, qual è il tuo progetto?
“Si tratterà di un documentario, nato per raccontare qualcosa in più su un personaggio controverso come Giuseppe Insalaco. Ancora nulla è stato approntato, è tutto in divenire naturalmente. C’è anche un libro, già finito da tempo: era stato scritto nel 2010 ma ho deciso di apportare qualche modifica e sottoporlo agli editori. Ad oggi non è ancora pubblicato e ad ogni modo preferirei non sbilanciarmi troppo. D’altronde è il progetto più importante della mia vita, ci lavoro da oltre dodici anni, non è facile.”
Perché proprio Insalaco?
“Tutto ha avuto origine nel più genuino ed ingenuo dei modi: ero poco più che un bambino e la mia curiosità mi ha portato ad interessarmi di questo personaggio. A quei tempi ero un dodicenne, le stragi del ’92 avevano dato una svolta alla propaganda antimafia. Nelle scuole si cominciò a parlare di educazione alla legalità, con maggior zelo e responsabilità. Si raccontava di Chinnici, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino: i grandi nomi, i martiri, i padri della giustizia insomma. Ebbene, ho tentato di scavare più a fondo, di capirci di più. Un giorno, proprio mentre provavo a documentarmi con i mezzi allora a disposizione, mi è capitata fra le mani una videocassetta: era di Andrea Purgatori,
s’intolava Mafia, dieci anni. Ajala racconta. Venivano proposti personaggi di ogni genere, vittime e delinquenti, tutti aventi a che fare con la criminalità organizzata. All’improvviso, nella categoria ‹‹politici›› comparve il nome di Insalaco: era la prima volta che ne sentivo parlare, erano trascorsi poco più di tre anni dalla sua morte, ma già era finito nel dimenticatoio. Si cercava di non parlarne, di passare oltre.”
Perché mai?
“Perché non era affatto un personaggio limpido, un eroe senza macchia. O almeno questo era cio chè si diceva di lui: non poteva che colpirmi. Ricordo che quello stesso giorno chiesi chi fosse con precisione: mi risposero in modo evasivo e di malavoglia ‹‹lascia perdere, è controverso››. Da quel momento il mio interesse cominciò a crescere con grande rapidità.
Anni dopo, nel 2005, mi decisi a girare un documentario su di lui. Ero davvero incuriosito: ogni qualvolta chiedevo informazioni su di lui, i più cambiavano argomento, glissavano o mi invitavano a desistere. Fu arrestato, venne ucciso, fu sottoposto a processi su cui ancora si stenta a vederci chiaro. È ambiguo, irresistibilmente ambiguo.
Ricostruii la sua storia, questa volta con attenzione: è splendidamente tragica, un dramma che si scrive da sé. Insalaco è nato in una Palermo che divora i suoi figli, è stato ucciso da chi voleva il suo silenzio. Eppure, è stato soltanto dopo la sua elezione a sindaco che la sua brama di onestà si è manifestata con chiarezza. Sino ad allora, stava ben attento a quali mani stringere.
Era un democristiano atipico, costretto a gettare la spugna, a lasciare la sua poltrona a chi non avrebbe pestato i piedi sbagliati.
Ma Insalaco non smetterà di declamare le sue verità, anche da imputato. Era diventato fastidioso, persino per sé stesso. L’aver abbandonato la sua carica in Comune lo ha ucciso, probabilmente gli ha fatto perdere il lume della ragione. Del resto non era altro che un astuto calcolatore, destinato al mondo politico.”
Non si rassegnerà, sino all’ultimo. Sino a diventare scomodo, un testimone insopportabile, irritante. Sino a far paura. Sino alla morte.
Possiamo dire che ad affascinarti non è stata la causa, ma l’uomo?
“Beh, sì. C’è da dire che non mi ero mai avvicinato a questo genere di problematiche sociali, non avevo mai parlato di mafia e antimafia nelle mie produzioni precedenti. Forse per principio: non volevo essere l’ennesimo speculatore pronto a scovare una storia poco conosciuta, al solo scopo di realizzare una pellicola di successo. Purtroppo accade spesso, soprattutto per quel che riguarda queste tematiche: sembra che, esautorato il potenziale scenico degli eroi, dei volti più noti, adesso ci si è ridotti a razzolare fra i pentiti, per dar vita a film o fiction televisive. Non volevo e non voglio che tutto si limiti a questo. Desidero soltanto parlare di lui, l’uomo vissuto nell’ombra.”