L’intruso

Tocco il mio ventre molle, la pressione delle mie dita affonda nella ciambella di carne che ti circonda. Mi esploro la pancia con curiosità mista ad angoscia, per indovinare il punto esatto in cui ti sei fatto la tana. Non ti indovino, per quanto ci provi. Eppure, è certo, sei al riparo da qualche parte nel mio corpo. Me lo ha confermato stamattina un’analista, in ospedale: “congratulazioni, signora. Il test è positivo!” – ha detto mettendomi in mano un foglio mentre mi sorrideva contenta. Lo ha detto così, davanti a tutti. Io ho sorriso con imbarazzo. Ho pensato infastidita che il personale ospedaliero dovrebbe essere tenuto a un contegno riservato. Cosa le ha fatto pensare che potessi essere felice di sapere che ci sei? Le sue parole mi sono arrivate addosso come una pugnalata in piena gola. Scendo le scale con cautela: mi sento svenire, ma non è perchè ci sei tu: mi sento svenire dal terrore! Le gambe sono di gelatina, mi aggrappo al corrimano per scendere i tre scalini che mi separano dall’uscita. Aria, ho bisogno di aria. Devo scacciare questo pensiero: io non ti voglio! E’ orrendo lo so, ma si è incuneato dentro di me senza chiedere il permesso. Proprio come hai fatto tu! Vi siete impossessati del mio corpo senza chiedermi se ero d’accordo. E io non lo sono! Un’occupazione abusiva e non autorizzata, ecco cosa avete fatto di me e della carne che mi appartiene, di cui solo io decido chi e quando possono violarne i confini. Sono in trappola. Anche fuori, per strada, non sono al sicuro: pochi metri più in là c’è tuo padre che ci aspetta. Vuole sapere se ci sei davvero, come ormai sospettavo da un po’ senza volerci tuttavia credere. Ho avuto un ritardo: poco male, non è la prima volta che mi accade. Il ginecologo me lo aveva detto più volte che non era nulla di allarmante: sono giovane e il mio corpo si sta ancora assestando. Capita alle giovani donne come me. Così, per circa una settimana non mi preoccupo particolarmente. Poi, vedendo che il ciclo non arrivava, ho cominciato ad angosciarmi. Ho fatto il primo test e tu non c’eri. Ho fatto anche il secondo, dopo una settimana, e nemmeno allora c’era traccia di te. Mi sono rasserenata. D’altra parte sentivo il seno gonfio e piccolissime fitte alle ovaie, come sempre accadeva prima di ogni mia mestruazione. Ho condotto la vita di sempre: andavo in giro la sera, vedevo gli amici e avevo sempre meno voglia di stare con tuo padre. Era davvero insopportabile, sai? Aveva una gelosia ossessiva, non voleva dividermi nemmeno con le mie amiche del cuore: era geloso anche del tempo che dedicavo loro, sentiva che lo sottraevo a lui. Per un po’ ho sopportato, pensavo che si sarebbe tranquillizzato vedendo quanto lo amassi. Mi sono sbagliata su di lui. La sua enorme insicurezza, l’incapacità di coltivare relazioni sane avevano creato il vuoto affettivo attorno a lui e, cosa ancora peggiore, stava trascinando me nello stesso vortice di solitudine. Ben presto mi accorsi di essere isolata da tutti e tutto, ma nemmeno così si sentiva tranquillo. Il mio amore per lui, si dissolse. Non ho mai sopportato le gelosie, nemmeno quelle lievi, né in amore e neppure in amicizia. Smisi di stimarlo. Io non volevo scegliere le persone da amare: io volevo amarle tutte! Decisi di interrompere quella relazione troppo soffocante per i miei pochi anni. Avevo ancora tanto da vivere, da scoprire, da conoscere, da viaggiare, da ridere, da stupirmi, da piangere. Da innamorarmi. Avevo vent’anni e il mondo stretto dentro il pugno, ancora tutto da giocare. Quell’uomo, tuo padre, decisamente non era per me, non era lui il grande amore. Era un amore piccolo, di passaggio. I nostri litigi sempre più frequenti mi davano sempre maggiore consapevolezza della violenza che mi stava usando pretendendo di snaturarmi, di farmi diversa. Camminavo sulle uova, perchè ogni mia parola o gesto poteva dirompere in discussioni dal tono molto violento. Quando mi diede uno schiaffo e per rabbia prese a calci il parabrezza della mia auto, decisi che era davvero finito tutto. Non volevo passare la mia vita così. Ero infelice.
Il mio ciclo non arrivava ancora. Guardavo attenta le mie secrezioni, tutte le volte che andavo in bagno, nella speranza di vederti dissolto in un grumo di sangue. Ma il mio ventre deve esserti sembrato un riparo sicuro, un luogo caldo e accogliente; così, nel buio umido delle mie viscere, hai deciso di crescere senza che io lo sapessi, nonostante me.
I jeans non mi abbottonavano più: guardavo la mia pancia sempre più gonfia e la interrogavo, le chiedevo se avesse nascosto qualcuno lì dentro. Nessuna risposta. Fino al mattino in cui andai in ospedale a ritirare il terzo test. 
Entrai in auto e sentii lo sguardo di tuo padre attraversarmi. Con la testa rivolta al finestrino, senza che mi riuscisse di guardarlo, ascoltai la mia voce senza colore dirgli che saresti arrivato da lì a pochi mesi. Esultò, provò ad abbracciarmi. Fastidio. Voglia di scappare. Percepii con precisione la sua vittoria. Ma ti assicuro, bimbo mio, che non era felice per te! Era felice perchè attraverso te avrebbe avuto me. Di nuovo una rabbia incontrollata tornò ad abitarmi. Mi sentii un oggetto da trofeo, una terra di conquista su cui si era giocata una battaglia che io avevo perso. L’amore non c’entrava nulla. No! Me lo dissi anche la sera, dentro il mio letto, che l’amore non era quella cosa lì. L’amore è libertà. Libertà di essere, di emozionarsi in un tramonto d’estate. L’amore non è mai violento. L’amore non gioisce della solitudine. L’amore riempe di sé e quando il sé non è più in grado di contenerlo, tracima all’esterno inondando ogni cosa, elargendo altro amore. È un dono di preziosa felicità. L’amore moltiplica se stesso. L’amore ci fa più buoni, rende più luminoso lo sguardo; ci fa sereni e forti. Ci fa sicuri delle nostre facoltà, con lo sguardo proiettato al futuro. L’amore non ci lascia mai la mano mentre prosegue questo cammino accidentato che è la vita. Cadendo e rialzandoci e aiutandoci. L’amore ci fa compagni! E un figlio, per Dio, un figlio è un bellissimo progetto d’amore da dividere in due! E’ un progetto da cui ne scaturiscono altri mille, tutti millimetricamente incastonati nel progetto iniziale. Questo pensavo. Questo volevo! Per me e per te. Semplicemente quello non era “tuo” padre, ecco.

Ti stanai, alla fine, mentre la luce incandescente del neon mi abbagliava, il corpo disteso nella stanza asettica del complesso operatorio. Io non ti “sentivo”. Così per convincermi che davvero respiravi il mio alito, che ti nutrivi della mia linfa, afferrai la mano dell’anestesista che mi invitava a contare: uno, due, tre, quattro…..Non ci sei, non ci sei – continuavo a ripetermi… 
Ridevano attorno al mio ventre apparecchiato come un campo di battaglia, camici verdi, cuffietta sui capelli, puzzo di sterile dalle pareti. Parlavano di banalità quotidiane, della cena che avevano organizzato per quella sera, finito il turno di lavoro. Tutto normale, c’è solo un intruso da mandare via, un abusivo. Non arrivai a contare fino a dieci. Non li sentii manovrare dentro le mie budella mentre ti strappavano via. Non vidi il sangue.
Di nuovo il neon sopra di me, questa volta ero in corridoio. Vedevo le lampade sopra la mia testa, passare una dopo l’altra come flash. L’urlo che mi uscì in mezzo alle lacrime non era il mio. Non era mia la gola che stava sputando dolore per quello che avevo fatto. Irreversibile. Il mio corpo era estraneo, non mi apparteneva. Mi portarono in una camera insieme alle altre, a tutte quelle che dovevano stanare il loro intruso, un fuori programma, una carta imprevista fuori dal mazzo. 
I mormorii erano quelli di un funerale. Tutte lì dentro piangevamo un lutto imploso dentro. Nessun feretro testimoniava il nostro dolore. Nessun fiore, nessuna tomba. Non una preghiera. Una mano pietosa, forse di donna, consolò le mie guance di lacrime con una carezza. Così mi addormentai di nuovo, ancora intontita. 
Nessuno, dopo di te, si è fatto la tana qui dentro.