L’occhio che uccide. Reality di Matteo Garrone

 

 

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo.

Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione.

 

Videodrome, David Cronenberg

 

 

Ascoltatemi! La televisione non è la verità! La televisione è un maledetto parco di divertimenti; la televisione è un circo, un carnevale, una troupe viaggiante di acrobati, cantastorie, ballerini, cantanti, giocolieri, fenomeni da baraccone, domatori di leoni, giocatori di calcio! Ammazzare la noia è il nostro solo mestiere.

 

Quinto potere, Sidney Lumet

 

 

È di un malinteso che tratta Reality (2012), l’ultimo film di Garrone, e lo si evince già dal titolo caratterizzato da un’ambiguità semantica alquanto rivelatrice.

Già, perché se per i telespettatori italiani la parola inglese reality sta a indicare un preciso format televisivo, non bisogna dimenticare che tale vocabolo, nella sua lingua originale, come primo significato rimanda al concetto di realtà.

Si potrebbe discutere all’infinito su cosa s’intende per realtà e se la percezione che ognuno ha di essa sia oggettiva o soggettiva, e la scelta di Garrone, di optare per un titolo ambivalente  e solo in apparenza didascalico, sottolinea proprio questo rapporto ambiguo tra realtà e finzione, un rapporto che trova una sua esemplificazione calzante nella messa in scena televisiva e, più precisamente, nel reality per eccellenza: Il Grande Fratello.

Com’è noto, il programma, lanciato in Italia nel 2000, prende il nome da 1984, il romanzo di George Orwell in cui viene rappresentato un regime totalitario, incarnato appunto dal Grande Fratello che tutto vede e tutto sa, un occhio onniveggente al cui sguardo i protagonisti non possono sottrarsi.

Attraverso la distopia orwelliana e la rappresentazione della vita all’interno della casa più famosa d’Italia, è dunque il reale, in tutta la sua ambiguità, ad imporsi come tema conduttore del film.

Ma facciamo una piccola deviazione.

Nel 1964 Umberto Eco pubblicò Apocalittici e integrati, un testo in cui il famoso semiologo definisce due tipologie di massmediologi: coloro che leggono in chiave negativa i mezzi di comunicazione di massa (gli apocalittici) e coloro che li interpretano in chiave positiva (gli integrati).

La seconda categoria, stando anche alle ultime teorie, afferma che i mass media, in primis la televisione, creano una realtà altra rispetto alla nostra esistenza quotidiana, ma che questa realtà è puramente finzionale in quanto attiene alla sfera del verosimile. Tale realtà parallela quindi indurrebbe il fruitore a seguire dei modelli comportamentali e ideologici creati dal medium stesso. Questi modelli però, sempre secondo gli integrati, non verrebbero accettati acriticamente, in quanto il fruitore tende sempre a confrontarsi col contesto sociale di appartenenza che, in qualche modo, bilancia la fruizione e quindi l’acquisizione passiva di tali modelli, permettendo al consumatore mediale di scegliere quale tra essi sia maggiormente integrabile con la società di cui esso è membro.

Stando a quanto detto, Garrone, con il suo film, sembrerebbe propendere per la frangia apocalittica: il ritratto tragicomico che esso fornisce del pubblico televisivo italiano – ma basta guardarsi un po’ attorno per capire che il grottesco ha ormai oltrepassato lo schermo e invaso le nostre esistenze – una società che, secondo gli integrati dovrebbe sovrintendere alla fruizione massmediale, non può più assumere questo compito, dato che il confine tra verosimile e realtà è andato perduto.

Basta ripensare all’incipit della pellicola per rendersene conto: una carrozza stile Luigi XVI giunge in un immenso ristorante in cui si tengono diversi banchetti nuziali. È la fiera della vanità, il regno del kitsch, dove l’ultimo pezzo del cantante neomelodico di turno si fonde con l’esacerbata sontuosità dell’arredo rococò. Il sogno è sposarsi nel fasto più ostentato, e non importa se ci si è dimenticati di invitare il buon gusto.

Anche in questo contesto sembra vigere il concetto di format: diversi matrimoni, tutti uguali, scanditi secondo un percorso narrativo precostituito e standardizzato, con tanto di finale “a sorpresa”, ovvero la comparsata del concorrente “rimasto 116 giorni nella casa del grande fratello”, il quale non fa che ripetere, ad ogni banchetto, gli stessi identici auguri o, per meglio dire, lo stesso identico monito: “non abbandonate mai i vostri sogni”. Sembra uno slogan di 1984.

Sogni, desideri, aspirazioni, sono loro a spingere Luciano (Aniello Arena), il protagonista del film, al limite estremo della follia. Sì, perché  lui, pescivendolo napoletano dall’animo da istrione – “devi andare in televisione!”, lo incita una parente –, persuaso da amici e familiari a partecipare ai provini per Il Grande Fratello, arriverà a convincersi, nel tentativo di soddisfare il proprio bisogno di riscatto sociale ed economico, non solo che verrà selezionato come concorrente della casa, ma che addirittura riuscirà ad aggiudicarsi il premio finale.

È una reazione a catena. A poco a poco vedremo Luciano mutare il  proprio carattere, il proprio modo di vivere e di vedere la realtà: venderà la pescheria, tormenterà un ex concorrente del reality, verrà abbandonato dalla moglie. In preda al delirio paranoico si convincerà di essere sorvegliato da una sedicente commissione esaminatrice che agisce in incognito e, proprio come il Winston Smith  del romanzo di Orwell, misurerà le proprie azioni per paura di essere giudicato negativamente e quindi di essere punito con l’esclusione dal programma: Il Grande Fratello ha oltrepassato le mura di Cinecittà.

Ma di chi è la colpa di tutto questo?

Garrone non giudica, né i suoi personaggi, che si distinguono per la loro corale affabilità e simpatia, né la società, sia quella napoletana in cui è contestualizzata la storia, sia quella italiana di cui la prima non è altro che un riflesso.

Lo sguardo del regista è certamente critico, dato l’uso del registro grottesco, ma si tratta di una critica speculativa, intesa a porre delle domande allo spettatore sulla propria concezione di realtà e sull’importanza che le sue rappresentazioni mediatiche hanno nel definirla.

Ecco allora che ritorna la questione sollevata dal titolo.

I reality, già dalla loro denominazione, creano un malinteso, perché ciò che ci viene mostrato non è autentico, non è vero, non attiene cioè alla sfera del reale, ma è semplicemente la messa in scena di un copione redatto da autori televisivi che tentano di ricreare situazioni e personaggi meramente realistici, verosimili.

Non comprendere questo vuol dire assecondare un equivoco che non può non portare ad uno sfasamento percettivo della nostra personalità e del mondo che ci circonda.

Luciano è l’esempio di ciò: le sue false aspettative lo spingeranno a modificare se stesso e persino la carità cristiana diverrà in lui qualcosa di esasperato. Donerà praticamente ogni cosa ai poveri, ma l’elemosina avrà il solo scopo di ostentare una misericordia senza pari, tanto francescana quanto insincera e innaturale.

E il dio di Luciano non è più lo stesso del poverello di Assisi; questo nuovo dio non perdona, si limita ad osservare, giudicare ed eliminare, egli non si rapporta né coll’essere né con l’avere, egli bada solo all’apparenza, alla superficie da lustrare ed esibire.

Il grande inganno sta proprio in questo, nel credere che si possa migliorare la propria condizione esistenziale inseguendo un sogno che non ci appartiene del tutto e che non è altro che il riflesso dei bisogni e dei desideri che tutti noi abbiamo, ma che la schermo ci rimanda indietro deformati e amplificati.

Garrone, che con Gomorra (2008) raccontava la realtà tragica di un paese allo sfacelo, con Reality presenta l’altra faccia di questa realtà, talmente alterata da essere diventata grottesca e che, parafrasando una celebre battuta di Groucho Marx, forse avrebbe bisogno di molta più gente che, quando qualcuno mette in funzione il televisore, vada nell’altra stanza a leggere, magari proprio Orwell…